I fotografi, testimoni delle emergenze
"La prima chiamata di cronaca nera che ho ricevuto all'inizio del mio mestiere è stata per correre su uno di quegli incidenti che sono poi diventati tristemente noti come stragi del sabato sera. Quando sono arrivato c'erano i corpi di sette ragazzi senza più vita. Sono risalito sulla mia macchina subito. Chi me lo fa fare, mi sono chiesto disorientato. Poi mi sono fatto forza, ho riaperto lo sportello e ho scattato fotografie a raffica. Sulla pellicola però non si è impresso quell'odore forte che c'era nell'aria, che tutti gli operatori del soccorso, purtroppo, conoscono bene e non riescono a dimenticare". Racconta così il suo lavoro di testimone Fabrizio Zani, uno dei tre fotoreporter che da vent'anni raccontano la storia di Ravenna, dagli eventi che danno lustro alla città a quelli della cosiddetta cronaca nera. È dall'archivio fotografico Corelli-Genovesi-Zani che abbiamo attinto la gran parte della documentazione fotografica per cominciare a delineare la storia del soccorso a Ravenna. Le loro sono immagini forti, significative, che pur nell'immediatezza della cronaca riescono a mostrarci l'evoluzione delle procedure e degli strumenti tecnologici che al Pronto Soccorso e alla Centrale Operativa del118 di Ravenna conoscono bene e applicano con professionalità da anni.
"Mi ha sempre colpito la preparazione degli operatori sanitari, la loro bravura, si vede subito quando arrivano, come si pongono. La loro professionalità mi aiuta a creare inquadrature funzionali alla scena. Perché c'è anche un'estetica nell'incidente, prediligo inquadrare a distanza con il teleobiettivo, soprattutto quando ci sono gli elicotteri, che atterrano avvolti nella tipica nuvola di polvere, come fosse una visione cinematografica: il campo lungo, panoramico, di un film". La giusta distanza, si potrebbe dire, parafrasando il titolo di un recente film italiano, è l'approccio di Giampiero Corelli, che come i suoi due soci, è impegnato da vent'anni a raccontare e condensare in poche foto gli eventi di cronaca.
Con la pratica il fotografo inizia a essere collaborativo con gli operatori del soccorso, non solo perché la scena va rispettata con più compassione e rispetto possibile, ma anche perché tra uno scatto e l'altro ci può essere anche l'occasione di dare una mano. "Diverse volte ho tenuto in alto la flebo, scoprendo che era più impegnativo del fare le foto, perché era un approccio emotivo più coinvolgente. Poi mi è capitato anche di trovarmi in un incidente senza doverlo fotografare, e sono riuscito a orientare la gente che in quel momento era sotto choc. A forza di osservare gli interventi mi sono reso conto di aver assimilato gli atteggiamenti e le dinamiche degli operatori del soccorso, e di aver fatto miei i metodi giusti, come se in tutti questi anni di mestiere avessi partecipato a un corso di autoformazione maturato sul campo". Ci racconta ancora Fabrizio Zani.
L'ammirazione per un mestiere impegnativo, paragonabile a una "missione" la esprime bene Paolo Genovesi: "Tante volte mi chiedo: ma come fanno i medici del soccorso? Come, ad esempio, quella volta in cui ho visto un medico mettere la mano in mezzo alle costole di un ferito per rianimargli il cuore. Loro l'emergenza la vivono tutta. Il rischio lo corrono anche loro, e non fanno differenza del colore della pelle di chi hanno davanti, lo devono salvare, punto e basta. Li anima la passione, la stessa che ho dentro io, per il lavoro, per un incarico che deve essere professionale."
"Cosa potrei fare di più?", si chiede sempre Genovesi, "Beh mi piacerebbe raccontare e mostrare le facce, tese come maschere, degli operatori del soccorso, che però è quello che non si può far vedere, perché non potendo pubblicare la foto del ferito non riesco a inquadrare neanche il medico che sta intervenendo per salvarlo. È una immagine che rimane importante per me. Vedo e conosco ormai bene quelle espressioni, che tradiscono le emozioni personali, provate dai medici e dagli infermieri sul campo. Riconosco la silenziosa disperazione di quando un intervento non va a buon fine, e l'immensa ma intima gioia e il sollievo di quando con le loro mani e con la loro esperienza restituiscono un corpo umano alla vita".
Andrea Samaritani
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