La Nuova Ferrara
Estratti dei Servizi fotogiornalistici di Andrea Samaritani
La collaborazione con il quotidiano La Nuova Ferrara (diretto da Stefano Scansani) è iniziata nel 1989. Di seguito i servizi fotogiornalistici pubblicati dal 2011
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La Nuova Ferrara, Enzo Minarelli, 7 giugno 2014 testo e foto di Andrea Samaritani
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Con Enzo Minarelli si fondono poesia visuale e pittura Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
Un angelo con la freccia puntata verso l'alto mi indica la via. Salgo le scale illuminate dalla luce viola intermittente al neon, dell'angelo stilizzato preso a prestito da un quadro del Guercino. La luminosa opera è stata realizzata nel 1991, in occasione del quarto centenario della nascita del pittore di Cento, da Enzo Minarelli, poeta visuale, che incontro nella sua soffitta, sotto il cielo di Cento, in un grande e spazioso studio che da trent'anni custodisce la sua arte. Enzo Minarelli guarda il mondo da una soffitta senza finestre. Lo pensa, lo immagina, e poi ci ritorna con i suoi versi, scritti e urlati. Parole che non sono mai recitate, semmai sussurrate, distorte fino a che è possibile. Negli anni settanta Enzo ha deciso che quella sarebbe stata la sua strada. I suoi vicini di casa non sanno che tutti i giorni quella soffitta si trasforma in una astronave che vola sul mondo ignorando cosa succede laggiù in strada, nella vita quotidiana di una città di provincia. Delle 300 performance artistiche di Minarelli, più di 200 sono state infatti realizzate in tutti i continenti del mondo, invitato dalle più prestigiose università internazionali. E' di casa in Brasile, in Messico, in California, a New York, a Tokyo, in Spagna. (...) Minarelli mi invita ad avvicinarmi a un ripiano alto dove è posizionato un ingombrante libro dalle dimensioni enormi: "E' il mio ‘Nembrot', un grande libro&oggetto di 55 tavole fonografiche realizzate tra il 1983 e il 2008. Ho utilizzato varie tecniche: collage, scrittura, prove di stampa, plastica, pellicole, fotografie, vari oggetti cartacei e non. Nembrot secondo Dante è considerato come il maggior responsabile della costruzione della Torre di Babele, da cui derivò la confusione dei linguaggi. Il mio Nembrot, tuttavia, linguisticamente parlando, opera attraverso un italiano qui dato in esplosione post-babelica, anche se il vero Nembrot di queste tavole fonografiche è di marca tutta visuale". Saluto Minarelli mentre chiude faticosamente il librone che è la summa della sua ricerca artistica, scendo le scale formulando una mia opinione assolutamente personale, che tradisce il fatto che non so ancora bene se ho capito qual è la disciplina dominante nell'arte o nella poesia di Minarelli. Ai margini della poesia, ai margini della pittura, ai margini della musica, là c'è la poesia visuale, che non è solo poesia, né solo visualità, è l'uno e l'altro insieme o anche qualcos'altro.
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La Nuova Ferrara, Mario Capuzzo, 16 maggio 2014 testo e foto di Andrea Samaritani
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Il grande pittore Mario Capuzzo raccontato da Maria Luisa Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
"La prima volta l'ho intravisto lassù, abbarbicato, mentre dipingeva l'affresco dedicato a Italo Balbo. Avevo nove anni. Il grande maestro ne aveva trentasei", inizia così la storia d'amore e di vita di Maria Luisa Frignani, che ricorda con lucidità e senza rimpianti, "una adolescenza senza troppi grilli per la testa e un unico pensiero: diventare la donna di quel pittore, così tanto famoso, di cui tutti parlavano, che mi sembrava irraggiungibile. Appena potevo chiedevo a mia zia di accompagnarla mentre consegnava a Mario Capuzzo la biancheria lavata e stirata. A volte gliela portavamo sui cantieri, altre volte nel suo studio in via Cairoli 36 a Ferrara. Fino a quel giorno, tanto atteso, quando con un sorriso mi ha dato un buffetto sulla guancia!". (...) Mario Capuzzo ci ha lasciato anche delle grandi opere, tra le quali il Cristo fra i lavoratori, del 1958, olio su faesite, esposto in modo permanente nella sala consiliare di Codigoro, e due grandi affreschi di sette metri l'uno, realizzati ai due lati dello scalone di Palazzo Koch, sede centrale della Cassa di Risparmio di Ferrara, in corso Giovecca. Raffigurano la marcia su Roma, la trasvolata atlantica di Italo Balbo e la colonizzazione della Libia. "Mario l'ha dipinto a mezzamacchia, negli anni trenta, il lavoro è durato diversi anni. Poi però nel dopoguerra sono stati coperti per evitare l'apologia al fascismo", mi spiega Maria Luisa ancora scossa da questa vicenda, "Ero andata alla Carife varie volte, il direttore di allora non credeva che sotto quelle due pareti bianche ci fossero degli affreschi. Su mia insistenza negli anni ottanta hanno sondato un pezzetto di bianco, ma ahimè è venuto fuori proprio il particolare del duce a cavallo, e quindi non hanno voluto proseguire nella scopertura totale. Ci sono voluti dieci anni per convincerli a riportarlo al suo stato originario, sotto le mani esperte di restauratori di Roma e Torino. Hanno naturalmente tolto i simboli fascisti: il saluto romano di Italo Balbo e i fasci littori. Così ho potuto rivedere le figure dipinte da Mario Capuzzo, nel periodo che l'ho conosciuto, negli anni che mi ha preso il cuore. Per sempre".
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La Nuova Ferrara, Franco Morelli, 31 marzo 2014 testo e foto di Andrea Samaritani
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Il magico mondo di Franco Morelli con una mano e la penna biro Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
Il cortile interno di Via Brasavola 11 a Ferrara, oggi è un quadretto ad olio su cartone, grande si e no come il nostro giornale. Lo vedo subito, prima ancora di salire le scale per raggiungere la stanza con il grande armadio a muro di cui mi hanno a lungo parlato. Mi fermo a osservarlo. Molti colori, tenui, nella gamma tra il giallo, l'ocra e il verde. L'ombra della casa occupa parte del cortile ma non toglie i particolari. Tre camini svettano sul cielo azzurrino, a ricordo di un'epoca dove in ogni stanza c'era il focolare. E' qui, in questa raffigurazione di un cortile semplice, asciutto, senza piante, senza sedie, che si cela il mistero, l'incipit della magica arte di Franco Morelli, nato nel 1925 e scomparso nel 2004. (...) Franco Morelli è conosciuto come l'artista chiuso e defilato. Come in effetti è stato. Alla fine degli anni Cinquanta interrompe ogni forma di contatto con il mondo artistico ferrarese, a causa di dissapori ed incomprensioni. Da quel momento in poi non esporrà più niente, e vivrà in una sorta di esilio casalingo, pur rimanendo a Ferrara. Continua a dialogare con il mondo a modo suo, indiretto, in ombra, accumulando grandi disegni dentro l'armadio a muro. Lo andava a trovare spesso Aldo Luppi. Se Morelli era l'orso, Luppi era il can ad piaza, cioè colui che gli raccontava cosa succedeva in piazza, giorno per giorno. Nella sua vita familiare invece Morelli era tutt'altro che chiuso e ombroso. Anzi. C'è una foto dove ride di gusto in modo teatrale, come in uno spettacolo di varietà. E' il Natale del 1978, nella foto sembra Macario, scherza con la moglie con un pezzo di torta rigorosamente fatta da lui stesso, è il ritratto di un allegro bontempone, che sta bene in famiglia e sa scherzare con gli altri e di sè. E' contenuto in questa foto familiare il mistero della vita e dell'arte di Morelli. Ricordiamocela quando guardiamo le sue opere.
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La Nuova Ferrara, Silvan Gastone Ghigi, Benini e Grisanti, 10 marzo 2014 testo e foto di Andrea Samaritani
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Silvan, un maestro che per dipingere distruggeva i pennelli Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
"Quando vengo in studio la prima cosa che faccio è disegnare. Soggetti vari, a volte traccio d'istinto corpi nudi, senza confrontarmi con modelli, disegnando forme che ho in testa. Poi indosso il grembiule a fiori, lo stesso che ho da trent'anni, e comincio a intingere il pennello sulla tavolozza", iniziano così le giornate nell'atelier d'arte di Rosamaria Benini, al piano terra di una palazzina in via Niccolini a Ferrara, a due passi da piazza XXIV maggio dove c'è il monumentale acquedotto eretto negli anni trenta da Carlo Savonuzzi, con l'imponente scultura di Arrigo Minerbi. Nella prima stanza a destra quadri alle pareti e mucchi di disegni, li solleva per mostrarmeli, dicendomi che ne ha realizzati migliaia. Sfornati come il pane quotidiano, le replico. Nel corridoio in fondo ci sono una serie di madonne, ispirate ai volti delle figlie. Due opere di questa serie, una Madonna col Bambino e una Sacra Famiglia, sono esposte in forma permanente nella chiesa parrocchiale di Chiesuol del Fosso. (...) "Silvan era un Bohémien, all'ombra del duomo, negli anni cinquanta. Un Bohémien in frac, nel senso che ci sono molti racconti, ma poche foto, sul suo abbigliamento estroso e sopra le righe. In molti l'hanno associato troppo al De Pisis legato a Venezia, in realtà viveva e sentiva molto Ferrara. Con la sua linea di design ha colorato le vie del silenzio della Ferrara di allora". Sono le parole sincere e convinte di Filippo Grisanti, che oggi è uno dei collezionisti più accaniti delle opere di Silvan. E' stato suo padre Antonio a incominciare la collezione che ad oggi conta quasi duecento pezzi. A rotazione li espone nella sua bella casa di Ferrara, in salotto, nei corridoi, sulle scale, dovunque, in un omaggio smisurato all'artista che ha stregato gli interessi culturali del padre ex vigile del fuoco ora in pensione. "La collezione è frutto di momenti della vita della mia famiglia. Mio padre amava il restauro del mobile d'arte e così Silvan gli fece degli interventi pittorici su delle sedie. Silvan portava i cartoni con le sue opere a mio padre a casa. Papà li teneva qualche giorno, e decideva cosa tenere e comprare. L'opera a cui sono più legato emotivamente è la Crocefissione dove al centro c'è il Cristo ma al posto dei due ladroni ci sono due candele, quest'opera mio padre me la regalò nel giorno della mia laurea. Posso dire ancora oggi a distanza di anni che era l'unico regalo che potesse farmi, condiviso da tutti e due". Una casa e una vita colorata con i pennelli consumati di Silvan Gastone Ghigi.
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La Nuova Ferrara, Alfredo Filippini, 19 febbraio 2014 testo e foto di Andrea Samaritani
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Filippini, la voglia di creare sulla soglia dei novant'anni Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
Arrivo in Via Boiardo a piedi, suono il campanello e non risponde nessuno. In effetti sono in anticipo sull'appuntamento. Esce una signora che mi chiede chi cerco. Le rispondo che sto suonando da Filippini, l'artista. Lei mi guarda e replica: "Ah è quel signore distinto che abita al secondo piano? Non so se è un artista, però è molto gentile ed educato. Sarà andato al bar a leggere il giornale". Dopo poco l'artista arriva, chiuso nel suo loden verde, il sorriso sereno, tonico e per niente affaticato dopo la sua camminata giornaliera del dopopranzo. Mi invita a entrare, saliamo le lunghe scale del palazzo costruito negli anni sessanta. Dietro una normale porta, di un condominio come ce ne sono tanti a Ferrara, si apre un mondo d'arte inaspettato, per i suoi vicini e per la stragrande maggioranza dei ferraresi. Una piccola galleria d'arte composta da quadri e sculture in terracotta realizzate, nell'arco di diversi decenni, da Alfredo Filippini, il pittore della porta accanto, lo scultore tra la gente. L'ultimo dei novecentisti ferraresi, che quest'anno, in ottobre, compie novant'anni. (...) Con lo stesso spirito, misto tra restauratore e copista, nel 2006 ha messo a disposizione gratuita la sua maestria per rifare la statua in terracotta del San Giovanni Battista, realizzata da uno scultore ferrarese del terzo quarto del XV secolo, collocata da tempo in una nicchia in alto in via Cortevecchia, all'angolo con via Boccaleone. L'originale caduto rovinosamente a causa un temporale, è stato restaurato ed è esposto in forma permanente in una sala della Pinacoteca di Ferrara, mentre in loco si può ammirare la copia di Alfredo Filippini alla quale il nostro ha aggiunto le gambe e parte del braccio, libera interpretazione di come poteva essere l'originale. Sull'uscio della porta mentre lo saluto, con uno sguardo veloce riguardo la sua casa e penso che l'esistenza appartata ma altamente creativa e la generosità di Alfredo Filippini, siano un bel regalo per Ferrara.
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La Nuova Ferrara, Laura Gavioli, 4 febbraio 2014 testo e foto di Andrea Samaritani |
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Laura Gavioli fu capace di portare sul Delta i grandi del Novecento Incontro a Goro con l'infaticabile organizzatrice di mostre Lungo l'elenco degli amici, da Treccani fino a Schifano Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
L'ultima spiaggia non l'ho mai trovata. L'ho cercata per un giorno intero, nel 1991, dovevo raggiungere la troupe del documentario "Strada provinciale delle anime" di Gianni Celati per La Nuova Ferrara. In quell'epoca non c'erano i telefoni cellulari, un appuntamento era quello e basta, non lo potevi cambiare. Il bar, dove si sarebbe dovuta fermare la troupe per caricarmi sul pullman azzurro per andare sul set, si chiamava L'ultima spiaggia. Ancora oggi non so se c'è veramente o se mi hanno preso in giro. Quando il sole è tramontato, di quella giornata non mi è rimasta neanche una foto. Il ricordo di quel giorno inutile e improduttivo, a distanza di anni, però non è né triste né arrabbiato, è semmai vagamente poetico, sospeso, piacevolmente disorientante. Perché è il Delta del Po che è così: o ci muori o ci rinasci. Se hai lo spirito giusto, spolpandolo fino al midollo, nella lontananza dalle città, nel silenzio, puoi trovarci fonti infinite di ispirazione e di riscatto. Sono questi i pensieri che mi riaffiorano, mentre viaggio in macchina verso lo studio di Laura Gavioli a Goro. Ci torno nell'era post-cellulare, sono bastati due email per concordare l'appuntamento. Mi invita ad entrare dalla porta al piano terra, di una casa-villa-studio dalla forma triangolare, progettata da Bartolomeo Viscuso, negli anni settanta e abitata dal 1978. Sono nel Delta del Po, nel confine più estremo della provincia di Ferrara, ultimo avamposto della civiltà di terra che si dissolve alla vista del mare. Poteva essere un luogo di confino, d'esilio, invece Laura, l'ha trasformato in un trampolino per il mondo. Perché a Goro ci si arriva per vocazione e per passione, e da Goro si può ripartire, sempre, con il faro di Gorino e l'Isola dell'Amore nel cuore. (...) Al piano terra dello studio della Gavioli c'è la terrazza del mosaico, dove noto alcuni bozzetti di opere in lavorazione. Si tratta dell'ultimo progetto che sta seguendo: una ricerca sulla scultura contemporanea e il mosaico. Ha proposto a scultori contemporanei, particolarmente sensibili al colore nella scultura, di partecipare all'insolita ricerca ritenendo il mosaico, non una tecnica decorativa ma, di fatto, un linguaggio autonomo. Hanno già aderito diversi autori, tra cui Livio Scarpella, Roberto Barni, Giuseppe Tirelli, Athos Ongaro, Nicola Samorì e il nostro ferrarese Sergio Zanni. "Il mosaico è molto spirituale, aumenta la visionarietà degli artisti", mi bisbiglia a bassa voce, sulla porta di casa Laura mentre mi saluta. Fuori è buio, la nebbia si sta infittendo. Sono sicuro che anche stavolta non troverò l'ultima spiaggia.
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La Nuova Ferrara, Gianni Cestari, 19 dicembre 2013 testo e foto di Andrea Samaritani |
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Gianni Cestari e l'arte. Un'emozione immediata Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
Ha dipinto al buio, a occhi chiusi. Sulla tela appoggiata per terra è apparso pian piano il volto scuro di un uomo. Gianni Cestari dopo quarant'anni di disegni, quadri, installazioni, cataloghi e mostre, ha voluto "verificare" se idea, spazio, braccio, pennello e tela, senza il controllo dell'occhio, sono ancora allineati. Il risultato lo si può ammirare in esposizione al Don Giovanni Bistrot Wine Bar, all'interno dell'ex Borsa, a due passi dal Castello, fino al 31 gennaio 2014. Un volto realizzato con un pennello lungo, sfatto e stracciato. Sfinito dopo le tante pennellate energiche che hanno inciso le tele di segni, di linee scure, nere. "La mia tecnica pittorica di oggi la posso ricondurre a quello che io chiamo gesto diretto", mi racconta Gianni nella grande stanza-atelier ricavata in una aula dell'ex liceo di Bondeno, presa a prestito dal Comune di Bondeno, e continua "Aggredisco la tela perché sento il desiderio di esprimere più velocemente le mie emozioni. Il gesto è emozione. Il gesto traccia e delinea i segni. Il segno me lo ritrovo sempre addosso. Oggi preferisco trasmettere l'emozione del segno. Nella vibrazione del segno deve e può nascere una emozione". Potrei concludere qua il racconto dell'incontro con Gianni Cestari. La sua è una dichiarazione di libertà. Dopo una vita passata a tracciare forme, dentro una pittura di segni controllati. Ha deciso di "perdere il controllo", tralasciando le rifiniture. Ovviamente l'intento è buono ma l'operazione è impossibile, perché esiste la memoria del gesto che condiziona la mano dell'artista nel controllare l'incontrollabile. Sempre e comunque. (...) Le ultime opere del 2013, sono dedicate al viaggio sull'Orient Express, il suo prossimo lavoro che è qui solo accennato. Scopriremo solo più avanti se sarà un viaggio di sola andata o anche di ritorno. Nel catalogo antologico sono contenuti tantissimi testi di curatori, scrittori e poeti: Angelo Andreotti, Sabrina Arosio, Paul Bright, Maria Livia Brunelli, Guido Cagnoni, Graziano Campanini, Gianni Cerioli, Enrico Cestari, Jean-Pierre Denefve, Maria Paola Forlani, Claudia Fortini, Galeazzo Giuliani, Claudia Gross, Gabriele Magnani, Franco Patruno, Elisabetta Pozzetti, Fabrizio Resca, James Rosen, Lucio Scardino, Valeria Tassinari. Presentati da Alan Fabbri e Francesca Aria Poltronieri. Per chi ha in programma un viaggio in Germania c'è anche una terza mostra di Gianni Cestari da visitare fino al 31 gennaio del 2014, dedicata all' - Angelo caduto-, il personaggio di un breve racconto di James Rosen, artista americano che espone suoi lavori di mail art. Ha dipinto sulle buste delle lettere ricevute da amici artisti: Gianfranco Goberti, Gianni Cestari, Claudia Gross e Paul Bright. La mostra dal titolo "En Route" è ospitata nello spazio di Unterhammer a Trippstadt.
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La Nuova Ferrara, Carlo Tassi, 29 novembre 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani |
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Carlo Tassi, un artista legato al proprio mondo Viaggio nei suoi studi di Bondeno Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
"Nasci che sei un colore. Il colore non si insegna, tu nasci colore, secondo il tuo sentimento secondo il tuo stato d'animo, ogni persona ha uno stato d'animo e il colore è la stessa cosa, me lo diceva Virgilio Guidi il mio maestro, all'Accademia di Bologna". Carlo sorride con lo stesso colore della sua camicia: arancione sgargiante. E' contento di stare davanti a una telecamera e alle luci del set. Ci srotola la sua vita nel giro di un'ora. Mette in fila le simbologie nascoste nelle sue tele, il significato degli alberi, delle case, del Cristo, e della gente. Siamo nel salotto grande al piano terra della sua abitazione sulla via Virgiliana, con noi la moglie Mara. E' il 26 aprile del 2011, sei mesi prima della sua scomparsa, avvenuta il 1 dicembre. Francesca Poltronieri lo incalza di domande, Carlo Tassi non si tira indietro, rilancia la palla come in una partita di tennis. "La mia scultura nasce attraverso la natura che c'è fuori, che è già scultura", prosegue il maestro "prima c'è l'albero e attraverso di lui si definisce l'armonia, le ombre, il chiaro-scuro, la gioia. Attraverso l'albero vivo nasce la scultura, che poi diventa pittorica attraverso le luci. Nei miei quadri l'albero cerca la tridimensionalità. Ogni quadro è una sofferenza. Fino a che non lo finisco. Che poi non è mai finito". Carlo l'ho conosciuto quando il mondo si era ristretto dentro la sua casa. Quando non aveva più bisogno di andare in giro a guardare gli alberi e il paesaggio per ispirarsi. Quando non aveva più voglia di stare con gli amici del bar. Quando sua moglie Mara era l'unica donna da amare tutti i giorni. Poi se ne è andato, lasciando tele non finite e messaggi sparsi ovunque. Quando muore un artista il suo atelier diventa immediatamente una mostra spontanea, apparentemente casuale, che però esprime in ogni centimetro il pensiero, gli affanni, i miti e i modelli che aveva in testa. Carlo Tassi ha lasciato due studi, uno che è anche abitazione, e l'altro acquistato pochi anni fa in centro a Bondeno. I due atelier sono oggi conservati perfino maniacalmente da Mara, senza spostare, senza cambiare niente di quella che era la situazione al 2011. Lo studio nel cuore di Bondeno è costellato di ritagli di fotografie, prese da giornali. Frammenti visivi che mi aiutano a conoscere le scelte, le ideologie, le attese e le speranze dell'uomo Carlo Tassi. Le sue stanze da lavoro sono tappezzate di riferimenti sociali e politici in un grande guazzabuglio di lingue, di proclami e di idee. Una babilonia del terzo millennio, che lui però leggeva in modo univoco e chiaro. Gesù Cristo in croce vicino al ritratto di Che Guevara, Togliatti e il Papa, Pasolini e il Guercino, Einstein e De Gasperi, il bambino bruciato nel Vietnam e i vecchi al bar. Un itinerario tutto suo, intimo, che è esposto alle pareti di quelle stanze ora piene di quadri non finiti, incompiuti, tavolozze con i colori ormai secchi, tele preparate con fondi che mi creano suggestioni come davanti alle campiture di Rothko. (...) Questa è la magia nei quadri di Carlo Tassi, di cui si parlerà la mattina del 30 novembre al Museo del Risorgimento di Ferrara, in compagnia di Lucio Scardino e Angelo Andreotti, dove tra l'altro fa bella mostra di se' una opera del pittore dal titolo: "Tutto per la Patria" del 1955, premiata ad un concorso sul tema della Resistenza, presieduto da Felice Casorati, Roberto Battaglia e Renato Guttuso. A due anni dalla scomparsa di Carlo Tassi, nel suo ottantesimo anno dalla nascita.
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La Nuova Ferrara, Monsignor Antonio Samaritani, 21 novembre 2013, testo e fotografia di Andrea Samaritani
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Ciao Zio Don Tonino ci mancherai Il nipote scrive una lettera per monsignor Samaritani: ti vedo in cielo a cercare di capire e illuminare la storia locale Testo e fotografia di Andrea Samaritani
Ciao Zio Don Tonino, così ti abbiamo sempre chiamato. Due settimane fa al dottore dell'ospedale hai detto, con la tua serenità di sempre: "Sono pronto", ma sappiamo tutti che non ti riferivi solo all'operazione. Eri pronto da tempo. Sapevi che la storia degli uomini è questa. Sapevi che la vita è amore e passione per le storie di ognuno di noi. E' la Storia che ci rende uomini. Spero solo di avere ereditato almeno un briciolo della tua infinita curiosità che ti ha spinto a non mollare mai le ricerche, a non dare mai per scontato niente, alla caparbietà che ti ha portato ad approfondire sempre le dinamiche storiche. Con Luciano Chiappini, Adriano Franceschini e Don Enrico Peverada eravate imbattibili. Quattro "fratelli" di studio e ricerche. Mi raccontavi che le vostre ricerche erano complementari: "Franceschini prendeva appunti di tutto, studiava gli ebrei e le confraternite, io approfondivo i frati di penitenza collegati alle confraternite nel mondo francescano, Chiappini sviscerava gli Estensi, Peverada era sul versante filologico. Scrivevamo ognuno per conto proprio e poi ci scambiavamo le informazioni, durante riunioni spontanee a casa di uno o dell'altro". Nella mia fantasia vi vedo ancora insieme, a cercare di capire, a provare di illuminare le zone d'ombra della storia, soprattutto quella minore, quella dimenticata. La storia locale di Comacchio, di Spina, di Pomposa, di Voghenza, di Cento, di Bondeno, di Ferrara, e di tanti altri centri grandi o piccoli che siano. Una immensa, grande e affascinante terra che era il vostro giardino, da esplorare con lo stesso stupore dei bambini. "Io sono diventato storico delle chiese locali", ci hai raccontato in un video che ti abbiamo girato insieme a mio fratello Mario nel 2008, "ma il mio desiderio era quello di diventare storico della chiesa primitiva. Però bisognava andare dai gesuiti a Roma per 4 anni. Non ho potuto per mancanza di risorse economiche. Ho invece studiato alla scuola Gregoriana, sempre a Roma, con una tesi in Storia della Morale medievale. Da allora mi sono sempre dedicato allo studio, con un metodo mio. Non mi sono mai accontentato degli archivi di stato, in molti studi ho allargato la ricerca anche agli archivi storici delle singole diocesi sparse per l'Italia. Ho sempre rifiutato l'idea che la storia si possa ricostruire solo a partire dai grandi centri abitati, ho invece sempre pensato e favorito la ricerca locale perché è quella che ti fa capire più nitidamente e nel profondo i processi storici. Ho sempre avuto riserve sull'assioma che la Storia sia Maestra di vita. Non lo è, per fortuna, sennò si ripeterebbe sempre uguale, la storia non è ciclica, non è mai uguale. Ci possiamo fare ricchi del passato ma ricordiamoci che lo conosciamo solo per prototipi, senza le sfumature minime che invece ci svelano le cronache locali. Nella storia non troviamo delle fotocopie per l'oggi, troviamo delle analisi frammentate, delle esperienze, la storia evenenziale, minuta, delle piccole cose, di una società che è molto variegata. A Ferrara, ad esempio, si tende ad avere troppe volte come riferimento Renata di Francia, calvinista, mentre non si pensa abbastanza a Vittoria Colonna, valdesiana, che rappresentava una corrente preprotestante. Però queste ipotesi di studio mi hanno sempre imbarazzato e creato ansia, l'idea di introdurre e proporre chiavi di lettura nuove, nella produzione di documenti scientificamente inattaccabili, non è mai stata semplice per me prete di campagna". Ti venivamo a trovare la domenica pomeriggio in quella chiesa, nella nebbia della campagna. Io e Mario saltavamo sui tappeti e sulle parallele, in libertà, in una palestra per qualche ora tutta a nostra disposizione, mentre tu nella canonica a fianco, malamente riscaldata, raccontavi ai nostri genitori, Sandro e Maria, la tua vita in quel borgo, da parroco di frontiera, per vent'anni, nel paese più scristianizzato della provincia di Ferrara: Medelana. "Piansi quando mi dissero che dovevo diventare il parroco in un paese di novecento anime, nella quasi totalità di condizione bracciantile, pressoché atea. La generalità dei nuclei operai andava fiera di non credere più, di non essere più -superstiziosa-. Però c'era tra loro una grande solidarietà umanitaria che era il nostro punto d'incontro. Un borgo che non si era piegato al Fascismo e questo avvicinava i comunisti e i pochi cattolici praticanti. Sono stati gli anni più belli della mia vita, perché si era creato un rapporto sincero e leale con gli abitanti di Medelana, che mi sono stati vicini per sempre". Nei pranzi di famiglia, quando c'eri tu, sul tavolo della festa, tra i piatti di tortellini, il pane e il vino, spuntavano magicamente, come giocattoli o piccoli plastici, il campanile dell'abbazia di Pomposa, il Trepponti e il portico dei Cappuccini di Comacchio, un crocefisso ligneo dimenticato, il Castello di Ferrara, il tozzo campanile romanico della chiesa di Medelana. Sculture immaginarie, visioni che apparivano tra il fumo dell'arrosto e del purè. Erano le immagini che uscivano dai tuoi racconti, dalle tue storie. Icone imprescindibili che si formavano dentro di me, che diventato grande ho poi fotografato più volte, sempre attraverso i tuoi occhi e le tue descrizioni pronunciate con dovizia di particolari, garbo e semplicità. Da Cento a Comacchio, la provincia di Ferrara è un territorio ricco di sfumature e di diversità. "Mi sono sempre tenuto in allenamento, saltando dall'alto ferrarese al basso, fino al mare. Dalle due parti opposte di una provincia unica, ma simbolicamente divisa. Lo stemma della provincia di Ferrara non è unitario, è composto da tre parti, Ferrara, Comacchio e Cento. Non è una unità, è una giustapposizione, è la sintesi di un processo storico in itinere. Io ho cercato di mettermi nel solco della ricongiunzione storico-geografica dell'intero territorio provinciale. Mi auguro che chi proseguirà gli studi vada in questa direzione, dell'unità territoriale da conservare". Mi ha sempre colpito il tuo spirito ecumenico, nella ricerca, a volte impossibile, di una sintesi culturale o geografica. In questi giorni ho ripreso tra le mani un tuo inedito scritto che hai intitolato "Vicende e pensieri di un prete della Bassa Ferrarese della seconda metà del secolo XX" amabilmente trascritto da Don Andrea Zerbini, dove in forma diretta e autobiografica racconti la tua vicenda umana tra fede, ricerca storica e vita quotidiana. Alla fine ti rammarichi per non aver goduto abbastanza della musica, dell'arte, della poesia e delle scienze esatte, preso com'eri dalla ricerca storica a tempo pieno. Ti sei privato di questi piaceri per noi. Per l'intera comunità ferrarese. Ti sei preparato all'uscita di scena dal teatro della vita con la minuziosità che ti ha contraddistinto sempre, hai indicato ai tuoi fratelli Sandro e Teresa l'abito da indossare nella bara, dando disposizione su tutto il resto. Con la lucida consapevolezza di essere una persona con una biografia che si completa con la morte, come lo sono state le infinite biografie che hai studiato. Ti voglio ricordare insieme ai miei fratelli e ai miei cugini, i tuoi cari nipoti. Ci rimangono i tuoi 353 libri che hai scritto direttamente o curato con altri autori, la tua imponente Biblioteca, i tuoi appunti scritti con una grafìa quasi araldica, i tuoi oggetti così carichi di vita vissuta. Ci portiamo nel cuore la tua dolcezza, il tuo sorriso sincero e leggero, la tua lucidità e la tua grande generosità, anche nei nostri confronti, piccoli come siamo rispetto a te.
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La Nuova Ferrara, nello studio di Lucio Scardino, 5 novembre 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani |
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La casa di Scardino è un mondo d'arte Tanti incontri, viaggi, ricerche e l'icona di Giovanna Baruffaldi Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
C'è un drago gotico, teso, nervoso, lassù in alto. Svetta sull'armadio-schedario, in stile liberty, che contiene i segreti di un secolo. Il suo corpo è contorto, pronto ad attaccare. Farebbe paura se non fosse in ferro battuto. "Me lo regalò mia mamma, Doralice Rizzieri, per il natale del 1976, un'opera realizzata da Ugo Vaccari di Poggio Renatico. E' una scultura in stile dannunziano, la conservo gelosamente da allora, è stata la mia prima opera di una collezione che ad oggi conta ben più di 400 pezzi". Sono nella casa-studio di Lucio Scardino, in via Salinguerra 14, a Ferrara. Confuse tra quadri, sculture e libri, si intravvedono due poltrone, una tavolo con computer, una cucina nuova, un bagno, un letto e due armadi quattro stagioni (uno dei quali a breve sarà dipinto da Amaducci, ndr). Punto. Tutto il resto è arte. "L'ultima opera, una statuetta di un angelo dorato, l'ho comprata, l'altro giorno, al mercatino di Stellata, in un pomeriggio denso di storie curiose, con il sapore di un salamino vinto scoprendo i numeri sotto dei tappi e i pinzin mangiati vicino alla Rocca Possente. L'ho messo su in camera, vicino alle Sirene del Po di Forlani, e a un ritratto di Savonarola", mi racconta ispirato Lucio e continua: "in fondo la mia casa, cioè la mia collezione, che sono un tutt'uno, è un accumulo di opere che suggellano situazioni, episodi, scambi e lavori eseguiti nell'ambito del mio lavoro da Imprenditore della Cultura. In molti casi sono omaggi realizzati appositamente da artisti ai quali ho realizzato mostre o cataloghi. L'ultimo di questi è, ad esempio, la "Leda col Cigno" che mi ha realizzato apposta per me Nicola Zamboni. Molte altre opere invece le tengo nella mia casa estiva del mare ravennate". (...) Lucio si sofferma e mi fa notare a lungo il look di Giovanna, fissato in una istantanea in bianco e nero dove la vediamo intenta a dipingere "Il Canapino". "Ecco una fotografia del 1953, in cui è in un campo di canapa, seduta su uno sgabello, indossa un'elegante casacca a quadrettoni, stretti pantaloni alla pescatora, allora quanto mai di moda e calza mocassini di tela che sembrano espadrillas. Più che una pittrice rurale, la Baruffaldi sembra una fotomodella in posa, aiutata anche dalla indubbia avvenenza". Purtroppo tutta questa bellezza estetica e artistica viene bruscamente interrotta nel giugno 1963, quando in un incidente automobilistico muore l'unica figlia Lorenza, appena diciassettenne. Giovanna crolla psicologicamente e non si riprenderà mai più, tormentata anche da sentimenti di colpa. Smette di dipingere per una ventina d'anni. Solo negli anni Ottanta riprende la pittura, una forma di reazione positiva e vitale, per allontanarsi dalla depressione. Alcuni quadri in mostra documentano questo momento storico di una forza ritrovata: un bel paesaggio boschivo, una natura morta curiosamente posta dinanzi al Po (forse la Giarina di Pontelagoscuro, che raggiungeva con la sua Fiat Bianchina) con un paio di bagnanti nude sullo sfondo. Negli ultimi anni Scardino l'ha stimolata e convinta ad aderire alla mostra "Per Isabella", itinerante fra le province di Ferrara e di Mantova, per la quale Giovanna ha presentato una bella immagine di Isabella d'Este, che è quasi una trasfigurazione della sfortunata figlia. Il cerchio si chiude. Giovanna si ricongiunge simbolicamente con sua Lorenza, ritrova forza e fierezza nell'intreccio esistenziale di una vita bella e tragica, tratti che la trasformano anche fisicamente in una fata buona, in una figura eterea, attorniata dai gatti nella sua casa di via della Fortezza. Oggi ci sono diverse opere di Giovanna Baruffaldi conservate in collezioni pubbliche, a Ferrara, Vigarano Mainarda, Copparo e in altri comuni della provincia ferrarese, che aspettano di essere valorizzate ed esposte in una mostra antologica.
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La Nuova Ferrara, Atelier artistico di Flavia Franceschini, 12 ottobre 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Un mondo pieno di cose nel salotto di Flavia La Franceschini ha aperto un atelier in via Carmelino, tra sculture, un torchio in uso, foto, oggetti di una volta e giocattoli Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
Il gesto è lo stesso che faceva il fornaio nel secolo scorso, la porta è la stessa. Una mano femminile abbassa la maniglia, consumata dal tempo, con decisione. Mi apre e mi invita a entrare. Le piastrelle di ceramica bianca sono quelle di allora e anche l'imponente forno a due bocche troneggia ancora sul fondo del negozio. Tutto uguale. Oggi però si entra nel portone di via Carmelino 15/17 non più per riempire il sacchetto della spesa con il pane caldo, ma stregati e incuriositi dal profumo sottile del legno di Cirmolo. Dal duemila le ceste e le cassette di legno non contengono più pane, coppie ferraresi, filoni, paste e biscotti, ma sono diventate valigie e scatole ricolme di legni di varie misure e qualità, proteggono la lama di sgorbie e scalpelli affilatissimi. Gli strumenti di Flavia Franceschini, ebanista e intagliatrice dal 1980. Mi siedo nelle comode poltrone del salottino ricavato nell'atelier. Flavia si accorge che guardo in alto, verso le sue opere più recenti, figure femminili appena accennate, bianche, illuminate nella trasparenza di stoffe, gessi, sete, pvc, tracciate con l'acrilico, tirate con la colla e sfumate con la terra. Non ho il tempo per fare la prima domanda, Flavia mi prende in contropiede con la risposta: " Sono presenze misteriose che volavano nell'ambiente, nella città. Ci sono gli amanti di Via Vegri, puoi riconoscere la contessina Nelda, sono tutti personaggi, soprattutto donne, protagoniste di storie e fatti veri, avvenuti a Ferrara nel secolo scorso". La collezione si chiama "Diafane presenze", ed è una interpretazione scultorea delle poesie scritte dal papà Giorgio (famoso avvocato, politico e storico, scomparso nel 2012). Flavia si riannoda a lui utilizzando la stessa parola "diafana", contenuta in una delle venti poesie della raccolta "Sentieri antichi", quella intitolata "Mito di Eco e Narciso", del 1943: "O creatura diafana, che accorri dolente ove si smorza la nostra voce, ti immagino triste se sai il suo desiderio di un'ora. Ti vide, su molli prati, vagare nell'attesa rassegnata del tramonto angosciata dalle inutili forme della tua terra e con te chiese di piangere sulla bellezza. E strinse il suo corpo con le tue braccia e si amò in te". (...) Oggetti, opere d'arte e pensieri creativi che si mescolano. Oggi ci sono le sue fotografie da andare a vedere. Domani chissà. Flavia è nata ballerina, e ancora oggi scende in pista, non più con le scarpette da punta, ma semplicemente per ballare e per saltare di qua e di la, in una coreografia classica, precisa ma al tempo stesso articolata. Libera e fantasiosa. Come la sua attività artistica.
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La Nuova Ferrara, Casa Museo Remo Brindisi a Lido di Spina di Comacchio, 28 settembre 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani |
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Remo Brindisi una foto e tre tele del mistero Viaggio nella casa-museo di Lido di Spina, tra vortici e vertigini alla scoperta dell'esposizione "Ritratto d'Artista Testo e fotografie di Andrea Samaritani (estratto)
C'è il silenzio tra noi. Giglio tiene a braccetto il maestro. Li aspetto e li inquadro a distanza con il teleobiettivo della macchina fotografica. A riempire il silenzio ci pensa il mare, con il suono delle sue onde inesorabili che si placano sulla spiaggia di Lido di Spina. Arrivano da me, i nostri sguardi si incrociano, quello del maestro è il più sereno, rilassato, pacificato. Quello di Giglio è protettivo, attento e devoto. Il mio è di curiosità, interesse verso un artista che è pieno zeppo di vicende e pensieri che li ha già raccontati tutti con il pennello. La voce e le parole non gli servono più. In tanti hanno già scritto su di lui. Gli basta uno sguardo, denso di storia e un sorriso accogliente. Un ricordo nitido, colmo di sensazioni, una fotografia che conservo di quel pomeriggio di primavera del 1996. I soggetti sono Remo Brindisi e Giglio Zarattini. Brindisi si è spento nell'estate di quell'anno. Giglio Zarattini, artista anche lui, suo collaboratore per anni, è diventato sindaco di Comacchio nel 2002, e prematuramente scomparso nel 2004. Remo Brindisi è sepolto nella sabbia di Lido di Spina, nel giardino della sua casa museo che quest'anno compie quarant'anni. E' un periodo vivace sul piano della attività espositive e di ricerca. Il Comune di Comacchio (che è proprietario del museo) insieme all'Istituto dei Beni Artistici Culturali e Naturali della Regione Emilia-Romagna, hanno organizzato una importante mostra "Remo Brindisi. Ritratto d'artista" in corso a Palazzo Bellini a Comacchio, dove il 12 ottobre è prevista la presentazione del terzo Catalogo Generale delle opere del maestro, curato dall'infaticabile gallerista milanese Gimmi Stefanini (edizioni Galleria Pace). Il Comune di Bagnacavallo ha dedicato una mostra sul ciclo delle opere ispirate alla Resistenza dal titolo "Remo Brindisi. L'arte che resiste", in corso fino al 6 ottobre. La casa museo è stata inaugurata nel 1973 dall'architetto Nanda Vigo, in totale sintonia progettuale con il maestro. Per entrambi la scommessa era realizzare una casa museo aperta, dove non ci fosse distanza tra l'artista e la vita quotidiana, tra il dentro e il fuori. Negli anni la casa è stata il crocevia di artisti, critici, collezionisti, vip, ma anche tanta gente comune, che hanno frequentato e resa viva una collezione d'arte che comprende 1700 opere catalogate, firmate dai più importanti artisti internazionali del novecento. De Chirico, Ernst, Kandinskij, Braque, Matisse, Rothko, Pollock, Mirò, Chagall, Calder, Picasso, Duchamp, Boccioni, Fontana, De Pisis, Burri, Morandi, Giacometti, solo per citare qualche artista esposto al museo, ma l'elenco è molto lungo. (...) Osservo le tele con gli occhi di Francis Bacon, il famoso artista irlandese che ha vissuto a Londra, che ha operato negli stessi anni di Brindisi, anche le sue figure si contorcono, pur in pennellate e colori diversi. Bacon sfigura anche lui i volti, invece in Brindisi rimangono gli occhi, che ci guardano che ci interrogano. Ci chiedono aiuto. Malinconici e rassegnati. "Da anni dipingo questa rabbia che ho addosso, che è poi la rabbia dell'uomo d'oggi perdutamente afflitto nel vivere da solo la crisi dell'impegno storico cui la società dei consumi e del livellamento umano l'ha ridotto" scrive Brindisi della sua pittura, "Questa mia immagine è l'uomo che si affanna di essere egli stesso la storia e la conquista del futuro". Il mistero è in parte svelato. Solo in parte.
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La Nuova Ferrara, arte ferrarese nella Pinacoteca di Bologna, 28 agosto 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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La Nuova Ferrara, arte ferrarese nella Pinacoteca di Bologna, 28 agosto 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Officina ferrarese (e centese) di casa a Bologna Dalle tele del Guercino a Francesco del Cossa Sotto alle due torri alla scoperta delle belle arti Testo e fotografie di Andrea Samaritani
Tre pittori con i baffi e pizzetto. Tre facce quasi uguali, vicine come in una foto ricordo. Tre ritratti scolpiti nel marmo. Ludovico, Annibale e Agostino Carracci, attivi nel XVI secolo, sono oggi i testimonial della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Li noto dopo aver passeggiato lungo il portico lineare e pulito di via Belle Arti. Li guardo. Mi guardano. Entro. Prima ancora dei quadri metto a fuoco un visitatore anziano, con la camicia bianca, il cappello in mano dietro la schiena e le bretelle da professore. Ho un sussulto. Da dietro mi ricorda Sir Denis Mahon il grande collezionista inglese, esperto di barocco italiano, specializzato nello studio del Guercino, morto nel 2011. Non è lui. Ma per me è come lo fosse. Si muove discreto, osserva con intensità ogni particolare delle tavole medievali, nella sezione dei Primitivi. Sosta a lungo davanti al "Martirio di Santa Cristina" di Pseudo Jacopino, del 1329, una tavoletta raffigurante il momento in cui la santa, intubata in una veste nera attillata molto alta e a seno nudo, viene colpita dalle frecce di due arcieri piccoli e bassi che sembrano bambini rispetto a lei. Il professore guarda la santa che sorride, lui le restituisce il sorriso, di riflesso, con quell' atteggiamento sornione che ho sempre visto dipinto sul volto di Mahon. Proseguo per le sale fino a che ritrovo il professore intento ad indagare "La vestizione di San Guglielmo", un' opera di grandi dimensioni, molto affollata di personaggi che fece dire al Malvasia: "questo è quel quadro che atterrisce tutti", riferendosi ai colleghi del Guercino, il pittore centese che lo dipinse nel 1620. Il professore gli dedica molti minuti, si allontana e si avvicina, vorrei dirgli: "Sa professore, il suo sosia, Mahon, sosteneva che la pala è uno dei maggiori dipinti dell'intero seicento italiano". Mi trattengo e mi limito a osservare di fianco a lui quell'opera potente, corale, dove è difficile dipanare le direzioni degli sguardi degli undici attori in scena, nel teatro vellutato e morbido del Guercino. Girovagando scopro due "ospiti centesi" che sono stati invitati a prendere parte all'esposizione permanente: il "San Carlo Borromeo" del Guercino e l' "Adorazione dei pastori" del Bagnacavallo. Leggo che entrambi i quadri sono stati portati nella Pinacoteca di Bologna all'inizio dell'estate, provenienti da strutture danneggiate dal terremoto del 2012. Il "San Carlo Borromeo" è collocato nell'anticamera delle imponenti sale dedicate a Guido Reni, e ai Carracci. Lo posso guardare da vicino, ad altezza d'occhi, abituato invece com'ero a osservarlo a distanza e in alto, quando si trovava, prima del sisma, in un altare della basilica di San Biagio a Cento. Il San Carlo andrà a Varsavia, in Polonia, al Museo di Stato Narodowe, il prossimo 19 settembre, dove rimarrà esposto fino a febbraio del 2014, insieme ad altre trenta opere del Guercino che si vanno ad unire alle cinque di proprietà del museo polacco, per una importante mostra dal titolo "Guercino trionfo barocco". "E' un opera realizzata a 23 anni, nel 1614", mi ha sempre raccontato Fausto Gozzi, direttore della Pinacoteca Civica di Cento, "non c'è ancora lo stile riconoscibile che vedremo poi nella Sibilla. Nel San Carlo si legge ancora l'influenza che su di lui hanno avuto i suoi maestri ferraresi lo Scarsellino e il Bononi. San Carlo è stato canonizzato nel 1610, quindi l'opera del Guercino ha anche il primato di essere la prima raffigurazione in veste di santo del cardinale milanese Carlo Borromeo". Lo guardo ancora qualche minuto e mi rapisce sempre la dolcezza del dialogo silenzioso tra i due angeli che hanno una presenza determinante nella composizione del dipinto. Proseguendo invece verso l' "Estasi di Santa Cecilia" di Raffaello, in fondo al Salone del Rinascimento, trovo l'altro ospite: l' "Adorazione dei pastori", di Giovanni Battista Ramenghi detto Bagnacavallo Junior, del XVI sec. La tavola era stata sottoposta a un importante restauro, si era concluso un lungo studio di Elena Rossoni che ne ha attribuito definitivamente la paternità, stava per essere collocata in forma permanente nella Pinacoteca di Cento, quando la sorte gli ha giocato contro: il terremoto del 2012 gli ha rovinato la festa. Era tutto pronto: la sala, il catalogo, l'inaugurazione. Niente da fare. Mani esperte l'hanno portata in un deposito. Dopo un anno trascorso al buio, il sovrintendente Luigi Ficacci, che dirige la Pinacoteca di Bologna, ha deciso di riportarla alla luce, fintanto che la pinacoteca centese non verrà risistemata. Oggi è qui di fianco e di fronte ad altre opere sempre del Bagnacavallo, in una vicinanza che può stimolare confronti e analisi. Luigi Ficacci ha in programma di ospitare prossimamente anche un terzo quadro proveniente dalla Pinacoteca di Cento, "La Madonna col Bambino fra i Santi Giuseppe, Francesco e i committenti" di Ludovico Carracci, del 1591. Al quadro era molto legato lo stesso Guercino che la chiamava familiarmente "La Carraccina". Nel Salone del Rinascimento si respira ancora aria ferrarese. Nella tela che da sola occupa una parete: la "Madonna col bambino tra i Santi Petronio e Giovanni Evangelista con il committente Alberto de' Cattanei", tempera su tela del ferrarese Francesco del Cossa nel 1474, realizzata a Bologna. La sua presenza nella città felsinea, secondo i critici, ha trasformato in senso rinascimentale la cultura locale. Osservo San Petronio in penombra rispetto alla luce che invece illumina bene le altre figure, ed è singolare che la presenza del committente sia quasi nascosta dietro i soggetti della composizione, quando invece nella stragrande maggioranza dei casi il committente è in primo piano, in basso, e in genere guarda orgoglioso l'osservatore. E' sempre l'officina ferrarese a regalarci in questa stessa sala: La "Maddalena Piangente" di Ercole de' Roberti, l'unico frammento sopravvissuto della decorazione della cappella Garganelli in San Pietro a Bologna, dove si possono contare le lacrime della disperazione, volendo anche le sopracciglia e i capelli, uno per uno. Di fianco un'altra piccola perla sempre di Ercole de' Roberti, il "San Michele Arcangelo", un olio su tavola di appena quindici centimetri per diciotto, una specie di altarino giocattolo. L'Ortolani accennava a una possibile provenienza da Pomposa. San Michele è qui ritratto in un atteggiamento insolito, non lo vediamo nella classica tensione dell'uccisione del demonio, il frammento ce lo mostra in posa pensieroso, come in un momento di serena riflessione, anche se gli sbuffi rossi sulla sua testa e sopra la mano mi suggeriscono l'irrequietezza e la forza indomabile del fuoco. Nella mano destra tiene una lancia che forse era originariamente conficcata nel demonio ai suoi piedi. Nel frammento non c'è traccia del resto, noi oggi lo vediamo che tiene la lancia in punta di dita, senza forza, senza potenza, ma con garbo ed eleganza. Nel lungo corridoio gravido di opere, che porta alla sala conferenze dedicata a Cesare Gnudi, mi fermo davanti al "San Sebastiano soccorso" dipinto nel 1619 dal Guercino per il cardinal legato di Ferrara Jacopo Serra. In questi giorni di calura estiva, provo quasi sollievo concentrando la mia attenzione sulla spugna di Irene che sgocciola acqua fresca per lenire le ferite del soldato che poi diverrà santo, riverso in penombra, curato e accudito con la testa appoggiata su un morbido cuscino. Mi fermo al centro della sala dove davanti a me si staglia verso l'alto "La visione di San Bruno" sempre del Guercino, osservo l'espressione attenta e presente della Madonna e mi vengono in mente le parole di Nefta Grimaldi storica direttrice della Pinacoteca di Cento negli anni sessanta: "l'espressione materna delle sue Madonne è sempre contenuta in una solenne riservatezza temperata da uno sprazzo di vigilante curiosità per ciò che si muove a lei d'intorno". Vorrei continuare a dialogare, più che altro ad ascoltare, quello che mi raccontano i tanti artisti attraverso le loro opere, fino a che non arriva l'immancabile gruppo di "cinesi in fuga" non si sa da cosa e verso dove, che correndo attraversano tutte le stanze, scattano foto a raffica, in una sequenza scientifica: quadro, didascalia; altro quadro, altra didascalia. Senza guardare un quadro, che sia uno, a occhio nudo, una visione sempre mediata dalla macchina fotografica digitale. Ho capito che è ora di andare, ho perso il contatto con la Storia, con le Storie. Tornerò un'altra volta, quando sarà ospite anche la Carraccina.
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La Nuova Ferrara, Duilio Forte al Museo Remo Brindisi a Lido di Spina di Comacchio, 22 luglio 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Comacchio è più ricca grazie a Sleipnir Finita a Spina l'installazione dell'architetto e artista Duilio Forte all'interno del giardino della Casa Museo Remo Brindisi Testo e fotografie di Andrea Samaritani
E' arrivato così, in punta di piedi, senza troppo clamore, senza cercare i flash e le televisioni. Ha cercato e trovato un alloggio in tenda, in un campo lontano dal Museo Brindisi, ma vicino alla filosofia ecologista che sta alla base della sua arte. Prima ancora di avvitare i bulloni della grande scultura in legno, ha cercato per se e per i suoi collaboratori uno spazio del giardino dove riprodurre parzialmente l'atmosfera della casa, dell'atelier, dove poter stare in comunità qualche ora, per condividere sensazioni e riflessioni che sono poi l'humus della sua arte. In punta di piedi ha camminato sul prato tra le sculture in ferro, in marmo e in cemento che da decenni costellano il giardino della villa di Remo Brindisi, che tutti i bagnanti di Lido di Spina conoscono bene, potendole osservare facilmente nel quotidiano pellegrinaggio estivo verso i sei stabilimenti balneari dirimpetto alla villa: il Bagno di Maui, il Florida Beach, il Montecarlo, l'Havana Beach, il San Marco fino al Trocadero. In punta di mani ha tagliato uno a uno i lunghi legni che hanno dato forma all'opera, senza smerigli o seghe elettriche, solo con la sega a mano. Chiodi e martello. Con una idea precisa, quella di mettere sulla stessa lunghezza d'onda il legno degli alti pini comacchiesi, avvolti da un concerto incessante di cicale, con le abitazioni in legno della sua amata Svezia. Un abbraccio geografico estremo, che però non è difficile da immaginare con i piedi nella sabbia, con il mare a due passi. Un grande mare che ci aiuta a perdere le misure e le distanze. Duilio Forte non ha conosciuto personalmente Remo Brindisi. Il maestro si è spento il 25 luglio del 1996, però la mia netta sensazione è che ci sia una sorta di approvazione silente da parte di Brindisi sull'opera che Forte ha realizzato. Bruno e Graziella, i custodi storici della villa, mi hanno sempre raccontato che quando hanno trovato il maestro disteso sul suo letto, il suo sguardo prima di chiudere gli occhi per l'ultima volta, era rivolto verso il mare. Loro lo leggono come un messaggio di apertura del maestro verso il nuovo, verso le giovani generazioni di artisti, che la creatività sia infinita come il mare, anche noi vogliamo credere che sia così. Duilio ha indossato per tutta la settimana una camicia bianca, con un gilet grigio e nero che incorniciava la cravatta. Cappello bianco per proteggersi dall'insidioso solleone estivo, una inseparabile borraccia in stile sopravvivenza, scarpe di cuoio da esploratore. Da dentro quella divisa, attraverso quella uniforme Duilio ha voluto esprimere la sua posizione esistenziale prima ancora del suo pensiero artistico. Da garbato architetto, ben vestito. Che pensa prima di agire, senza fretta. Il progetto innanzitutto. Le procedure precise per realizzarlo, la capacità di inventare e perché no, di sfidare la natura. Sleipnir Argus, così si chiama la sua grande scultura in legno, ispirata alla mitologia del cavallo a otto zampe di Odino, alta dodici metri, che ci ha lasciato nel giardino del Museo Casa Remo Brindisi, slanciata verso il cielo, sopra le punte verdi dei pini, con la testa dello Sleipnir che vuole scrutare il mare. Sleipnir si è preso uno spazio, ha riempito un vuoto. Finalmente. Un'opera monumentale, simpatica ed ecosostenibile, che d'ora in poi ci farà capire che con una spesa relativamente poco impegnativa si può ancora creare e produrre arte. Quando per arte si intende gioco, sorpresa, fantasia e immaginazione. Me le immagino già le foto di Sleipnir nella nebbia che arriverà immancabile il prossimo inverno, o spruzzato dalla neve che ultimamente non risparmia più neanche Comacchio. Mi immagino la sua ossatura in legno trasformarsi come i pali in salina e in valle, corrosi dalla salsedine, che assumono nuove forme, curiose e naturali. Mi immagino i visitatori in posa per la foto ricordo, misurarsi con l'altezza inconsueta dello Sleipnir. Se ne starà lì muto e guardingo a custodia del Museo, come un antico Dolmen, come un Menhir, o anche solo come un faro del vicino Porto Garibaldi. Nel dialogo silenzioso, ma vivace, con gli altri suoi "fratelli di legno", creati in questi anni da Duilio Forte, sparsi in tutto il mondo. Anche Comacchio da oggi ha una creatura in più, simpatica e piacevole, da andare a trovare quando abbiamo voglia della leggerezza e dell'immensità dell'arte.
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La Nuova Ferrara, un ricordo di Bigas Luna a Comacchio, 7 aprile 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Addio al regista Bigas Luna Il regista nel '96 lavorò a Comacchio. Samaritani: c'ero anche io Testo e fotografia di Andrea Samaritani
Nel 1996 ho seguito come fotoreporter alcuni momenti del set blindatissimo "Bambola". A distanza di anni posso dire che "c'ero anch'io" quel sabato sera alla festa nella casa museo Remo Brindisi a Lido di Spina, un party creato a metà della lavorazione del film, nella villa trasformata e illuminata che sembrava di essere in una festa a Hollywood. Quella sera erano tutti belli, tirati come a una grande festa del cinema, con tante persone che non ci sono più come il maestro Brindisi e Giglio Zarattini. Quella sera ho creato un ritratto al regista sul terrazzo della villa, come anni prima avevo fatto uguale con Remo Brindisi. Ricordo i paparazzi in quei giorni, nascosti nei furgoni a 40 gradi, il loro potenti teleobiettivi sbucavano dai finestrini semichiusi per cercare lo scoop, quell''immagine della Marini sulla grande mortadella. Ma più di tutti il ricordo di Bigas ipercreativo, che alla fine delle faticosissime giornate passate a dirigere il set aveva ancora energie per dipingere quelle pagine di un racconto che poi sono diventate una intrigante mostra a San Romano. Appunti visivi neri dipinti con il pennello su fogli strappati da libri incollati su cartone, i soggetti erano i suoi incubi erotici interpretati e raccontati sotto forma di anguille che segnano la cultura. Il suo modo per rendere omaggio a Comacchio, terra di grande fascino.
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La Nuova Ferrara, Valentino Balboni collaudatore Lamborghini, 27 febbraio 2013, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Io e la Lamborghini Da cinquant'anni supercar da sogno Parla il collaudatore Valentino Balboni Testo e fotografie di Andrea Samaritani
Cinquant'anni fa, un uomo nato a Renazzo, nella terra secolare della Partecipanza Agraria di Cento, "lambiccava" attorno a un prototipo di automobile, che ambiva a essere chiamata supercar, era la Granturismo 350 gt, con quell'inconfondibile, enorme muso puntato che evocava più una batmobile che i trattori che era abituato a costruire. Quell'uomo era Ferruccio Lamborghini, che esattamente il 7 maggio 1963 mettendo in moto quel bolide, accese la prima di una serie infinita di automobili che hanno reso famoso e mitico il suo nome in tutto il mondo. "Era Ferruccio che consegnava personalmente le automobili, quando arrivava il cliente di giorno a ritirarla non sempre era pronta, tante volte siamo arrivati a dargli le chiavi di notte. Il rombo della macchina rompeva il silenzio del buio, noi meccanici andavamo sulla strada principale e ascoltavamo il suono di questo meraviglioso motore appena venduto, che si allontanava. Ferruccio ascoltava le marce, quando sentiva che il cliente aveva inserito la quinta diceva che potevamo andare a dormire perché la Lamborghini non si sarebbe più rotta". E' uno dei mille ricordi conservati nella testa e nel cuore di Valentino Balboni di Casumaro, che per 40 anni ha lavorato in Lamborghini. "Ho iniziato spingendo le macchine a mano nel cortile e nell'officina di Sant'Agata Bolognese, nel 1968, per finire a guidarle a 300 km all'ora su tutte le strade del mondo", ci racconta orgoglioso Valentino, e continua "non dimenticherò mai quel giorno che passando davanti alla fabbrica della Lamborghini a bordo di una fiat 500 guidata da quel prete spericolato che era Don Alfredo Pizzi, abbiamo visto scaricare da un camion delle scocche della Miura, ci siamo fermati, per aiutare quegli operai. Da cosa nasce cosa, mi chiesero a bruciapelo, lì nel piazzale, se volevo lavorare per loro e mi diedero un foglio da compilare. Dopo una settimana ero a colloquio da Ferruccio in persona, che mi assunse come vice, del vice, del vice, meccanico, apprendista, dal gradino più basso. Allora andava così. La mia avventura da collaudatore è iniziata casualmente". "I primi tempi pulivo le macchine, i motori. Guardavo e ascoltavo, è stata la mia scuola. Poi mi hanno affiancato a quello che è diventato il mio primo istruttore, Bob Wallace. Andavamo in pista a Modena, mi faceva fare esercizi di guida, molte volte partivamo da Sant'Agata fino a Napoli e ritorno in giornata". I ricordi di Valentino sono innumerevoli fino a quel giorno del 5 settembre 1973, "Con una Miura nera, mi sono trovato per la prima volta, in strada da solo. Avevo paura di tutto anche di pigiare l'acceleratore, temevo di andare forte nelle curve e non riuscire a sterzare. Poi è andata bene e sono diventato collaudatore ufficiale della Lamborghini!". Tutta la storia professionale di Valentino è intrecciata a quella di Ferruccio: "Con lui non si faceva mai niente di normale, era tutto speciale, sempre esclusivo, spingevamo ogni cosa al limite, alcune volte oltre, con un pizzico di incoscienza, che però preferisco definirla coraggio, forza di osare, senza freni. Questo carattere è quello che ha permesso a Ferruccio di creare le macchine che ancora oggi ammiriamo! Io personalmente ho avuto la fortuna di fare tutto in azienda, mentre cresceva, svolgendo tutte le mansioni dell'officina, così oggi conosco tutti i segreti dei motori. Ci sono aneddoti che hanno cambiato il corso della storia della azienda come quello che mi raccontava sempre il mio collega e amico meccanico Vito Fornasieri di Casumaro. Ferruccio aveva comprato due Ferrari, che utilizzava per accompagnare i clienti importanti, però essendo un po' maldestro nella guida bruciava sempre la frizione, la portava al servizio assistenza alla Ferrari, pagando dei gran soldi. Quando invece una volta Vito smontando lui l'ennesima frizione bruciata della Ferrari si accorse che era la stessa del trattore Lamborghini, quindi una normale frizione commerciale, non specifica, mandò in escandescenza Ferruccio che si rese conto di essere stato fregato varie volte dal Drake. Fu quella una delle scintille che fecero scatenare la sua voglia di costruirsi da sé una macchina migliore di quelle di Maranello". Un altro anno importante per Valentino è stato il 1988, quando il direttore tecnico l'ingegnere Luigi Marmiroli lo coinvolse direttamente e dall'inizio nello sviluppo tecnico della Diablo: "Fu una grande emozione, una grande responsabilità, ero diventato l'uomo al volante che doveva trasmettere le reazioni della macchina agli ingegneri. Un collaudatore che è coinvolto nella ricerca e sviluppo è come un prete che diventa Papa". Si chiamava -Progetto 147-, prima del nome ufficiale si utilizzano codici, è necessario il segreto aziendale, anche le prove in strada devono essere tenute nascoste "Uscivamo alle tre di notte, a bordo con me c'era l'ingegnere Marmiroli, davanti a noi ci apriva la pista una macchina normale in avanscoperta per vedere se c'erano delle spie o dei fotografi, la macchina era assemblata senza finitura, verniciata di nero per renderla il meno visibile possibile, entrava la polvere, il caldo, i disagi di una guida ancora da mettere a punto erano tanti, però la ricordo come una esperienza bellissima. La Diablo era la prima che montava un equipaggiamento elettronico. Una notte che eravamo in prova, è saltato l'impianto elettronico, siamo rimasti senza fanali lanciati a 180 chilometri orari. Ci ha salvato la luna piena che rifletteva la sua luce sull'asfalto". Lavorare in Lamborghini per Valentino è stata una occasione di incontrare personaggi di ogni tipo, dagli operai, alle grandi star internazionali. "Ho dei bellissimi ricordi di esperienze di lavoro vissute a stretto contatto con Marcello Gandini designer e stilista, l'ingegner Stanzani, l'ingegnere Gianpaolo Dallara che è il padre della Miura, Giotto Bizzarrini, tutti personaggi geniali che Ferruccio riusciva a coinvolgere. A Sant'Agata sono ancora amico di Giuliano Pizzi, me lo ricordo con la sua tuta bianca, addetto al banco prova, fu il primo a scrivere a mano un verbale che ancora è conservato. Fino ai sindacalisti Luciano Righi e Emilio Schiavina, che furono i miei primi riferimenti, che mi fecero capire come funzionava il sindacato". La lista di Valentino continua: "ho consegnato in prima persona tantissime macchine a personaggi come Mike Tyson -un gigante che poi non è riuscito a entrare fisicamente nella Countach e così gli abbiamo venduto un fuoristrada LM-, ho predisposto le macchine per Claudio Villa, Little Tony, Peppino di Capri, Mickey Rourke, Tom Cruise, Russel Crowe, Nicolas Cage, Liz Taylor. Ho portato personalmente la Miura allo Scià di Persia a Saint Moritz, e la Diablo gialla a Rod Stewart a Sanremo". Il lavoro di Valentino, pur essendo in pensione dal 2008, prosegue in giro per il mondo: "Mi invitano e partecipo ad eventi internazionali dall'America all'Australia. Rappresento l'azienda per la sua parte storica, voglio continuare fino a che mi sarà possibile, per raccontare al mondo quale era la passione e il carattere di Ferruccio Lamborghini".
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La Nuova Ferrara, Mauro Guidetti Recycling System, 21 novembre 2011, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Guidetti, la tecnologia in difesa dell'ambiente La società di Renazzo è leader nel settore del recupero di materie prime Realizzata un'innovativa macchina che lavora i rifiuti elettronici Testo e fotografie di Andrea Samaritani
"Dai Mauro, sei capace di costruire un macchinario per dividere le parti di 'ste macchine che mi arrivano qua? Che poi mi tocca smontarle per dividere la lamiera dalla plastica, dal rame, dal ferro". Andrea Pirani, rottamaio di Casumaro non si sarebbe mai immaginato che dicendo questa battuta nel 1987, al suo amico Mauro Guidetti, avrebbe acceso casualmente la miccia di quella che oggi si chiama "Guidetti Recycling System", con sede a Renazzo, importante azienda che vende macchinari per il riciclaggio in tutto il mondo. Da allora Guidetti e la sua squadra hanno progettato e costruito migliaia di macchine per il riciclaggio, di vario genere, per i più svariati utilizzi, per autodemolitori, produttori di cavo, rottamai, cablatori, demolitori industriali e del recupero delle apparecchiature elettriche ed elettroniche. "I primi anni eravamo in tre, facevamo tutto dal lavoro d'officina al commerciale, poi nel 1992 siamo riusciti a creare la prima macchina compatta, che ci ha dato un bel vantaggio sui nostri concorrenti". Mauro Guidetti si racconta, aggirandosi tra i capannoni con il grembiule blu addosso, per seguire da vicino la produzione. Non sta fermo un minuto, perché la sua non è una fabbrica ma una grande officina che ha ancora il sapore artigianale, della ricerca delle soluzioni tecniche, della costruzione meccanica basata sull'esperienza. Siamo andati a visitare l'azienda nell'ambito del "Open House Guidetti 2012", che si è svolto dal 5 al 13 novembre, collegato all'evento fieristico internazionale "Ecomondo" di Rimini. Sabato pomeriggio cinque telecamere professionali hanno filmato la messa in moto dell'enorme macchinario W.E.E.E. Plant, lungo 9 metri e alto 7, che ingoia di tutto, divide i componenti e li tritura fino a farli diventare polvere, materia prima da rivendere per poi ricreare nuovi prodotti. Il filmato è stato trasmesso in streaming in tutto il mondo, dove ci sono la maggior parte dei clienti di Guidetti. "Il nostro mercato è il mondo" afferma Guidetti, "gli Stati Uniti d'America ci assorbono il 25% dei nostri macchinari, in Italia copriamo il 20% del nostro fatturato. Stiamo aprendo degli importanti sbocchi commerciali nei paesi dell'est europeo, in Russia, in Corea, in Giappone. Siamo dappertutto. Da anni soddisfiamo l'esigenza di avere macchinari per riciclare oggetti che hanno finito il loro ciclo funzionale e materiali di scarto (lavatrici, elettrodomostici, fili elettrici, telefonini, computer, ad esclusione dei monitor e dei frigoriferi), frantumandoli fino a farli tornare materia prima, il più fine possibile. Da alcuni anni ci era stata manifestata la richiesta di una macchina per il riciclo che coprisse la linea completa R.A.E.E. (sono i Rifiuti di Apparecchiature Elettroniche ed Elettriche) che rappresentano la categoria di rifiuti in più rapido aumento a livello globale con un tasso di crescita del 3-5% annuo, tre volte superiore ai rifiuti normali. Ci siamo rimboccati le maniche, ci abbiamo lavorato tre anni, a testa bassa con il settore ricerche e sviluppo, spendendo più di tre milioni di euro in ricerca, e adesso siamo qua a goderci questa macchinona, verde, possente e implacabile a triturare oggetti a ciclo continuo. Si chiama W.E.E.E. Plant e il suo processo di lavorazione, attraverso 4 stadi di frantumazione e 2 di separazione, consente di separare tre componenti: polveri, plastiche e metalli non ferrosi. Ne abbiamo una nel nostro stabilimento di Renazzo, una a Siracusa e proprio in questi giorni ne è stata già venduta una terza in North Carolina, che la consegneremo in febbraio del 2013". La crisi mondiale non è ancora finita, ce ne vorrà ancora per uscire dal tunnel. Nonostante questo nella campagna di Renazzo tira un'altra aria. "In questo periodo di crisi noi abbiamo ampliato l'area fabbricata con settemila metri quadri di capannoni nuovi, stiamo assumendo tre operai per arrivare a essere in cinquanta a tempo pieno, con tutte le linee in produzione". Bastano queste parole di Guidetti a spiegare che il miracolo industriale del centese, dagli anni cinquanta ad oggi, non si è spento, anche se non è così per tutti. Mauro Guidetti è uno che il successo e il miracolo se li va a cercare con il grembiule addosso, perché è venuto su con la stessa caparbietà e intuizione tecnologica di Ferruccio Lamborghini che da Renazzo si è fatto conoscere in tutto il mondo. Ecco perché gli ha dedicato la sua personale collezione di trattori Lamborghini, e la coupè sportiva Urraco verde, costruita negli anni settanta nello stabilimenti Lamborghini di Sant'Agata Bolognese. Pezzi rari, esposti con orgoglio nella galleria adibita a showroom. Per non dimenticare da dove veniamo.
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La Nuova Ferrara, Carla Di Francesco il bilancio del terremoto, 21 novembre 2011, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Oltre seicento monumenti danneggiati dalle scosse Il rapporto di Di Francesco sullo stato dei beni culturali dopo il 20 e 29 maggio La situazione nel ferrarese, dal ministero sono in arrivo quasi 8 milioni di euro Testo e fotografie di Andrea Samaritani
A sei mesi dal sisma è già più facile parlare del terremoto. Descriverlo, ricordare le ferite, raccontare le lacrime strappate anche alle persone più forti. Raccontare con distacco le decisioni difficili prese, l'ammissione dell'impotenza davanti ai crolli totali. Parole difficili da pronunciare, ragionamenti spinosi da esporre e dichiarare, che però ieri Carla Di Francesco, Direttore Generale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell'Emilia-Romagna, ha avuto la forza di scandire senza tentennamenti, con l'orgoglio di chi sa di aver lavorato sodo, davanti al ministro per i Beni e le Attività Culturali Lorenzo Ornaghi, nella gremita sala dei Mori di Palazzo dei Pio a Carpi, nell'ambito del convegno: "A sei mesi dal sisma. Rapporto sui beni culturali in Emilia-Romagna". "Nel mio giro non ho visto una chiesa che non avesse qualche danno; ho visto crolli impensabili e devastanti, su chiese, castelli, torri e campanili. Per il resto cornicioni, comignoli, statue e sommità di edifici crollati hanno reso i centri storici in buona parte impercorribili e transennati". Queste le parole contenute nell'email inviato ai soprintendenti delle provincie coinvolte, di lunedi 21 maggio alle ore 08:17, da Carla Di Francesco per serrare le fla, per chiedere a tutti concentrazione, forza e dedizione. "Il primo giorno siamo andati in Prefettura, e abbiamo cominciato a girare subito, scortati dai carabinieri". Inizia così la relazione della Di Francesco, e prosegue "Il 22 maggio avevamo già costituito l'Unità di Crisi Regionale", mentre parla scorrono alle sue spalle decine di immagini di chiese crollate, di palazzi danneggiati, cimiteri e teatri inagibili, "Il primo momento critico lo ricordo soprattutto in merito ai campanili, alla pioggia delle richieste di demolizione, un tema caldo, bollente! Richieste spropositate rispetto alle nostre capacità! Poi una valanga di segnalazioni, anche ripetitive, imprecise, inutili. Per panico e.. forse altro. Abbiamo capito in quei primi giorni la fragilità del nostro patrimonio, e abbiamo cominciato a graduare la gravità dei danni", qui il racconto della Di Francesco vira su Ferrara, "una piccola consolazione constatare che Ferrara ha avuto danni leggeri, a Palazzo Schifanoia , anche se gravi per la preziosità del patrimonio, in particolare nella sala degli stucchi, il tentativo di ribaltamento della facciata sul giardino, e il danno grave all'apparato decorativo. Il Museo Archeologico ha retto bene perché qualche anno fa avevamo realizzato delle opere di restauro consistenti". Poi la Di Francesco coglie l'occasione di ammettere pubblicamente quelle che lei stessa definisce "Due perdite dolorose: il Municipio di Sant'Agostino veramente irrecuperabile e il campanile di Buonacompra, che ho sempre avuto reticenza a mostrarlo: era troppo lesionato. Il ragionamento doveva essere immediato, l'irrecuperabilità ci è sembrata la soluzione giusta da adottare. Dopo questi due interventi tutto il resto siamo riusciti a mantenerlo e recuperarlo". La relazione è proseguita con l'enunciazione dei dati importanti per valutare i danni complessivi subiti dal patrimonio storico, culturale e artistico del territorio ferrarese. La distribuzione del danno su beni segnalati per comuni interessati nella Provincia di Ferrara è così suddiviso: più di trecento a Ferrara città, una settantina nel comune di Cento, quasi sessanta a Bondeno, sopra i venti ad Argenta e Poggio Renatico, sotto i venti in tutti gli altri comuni. La distribuzione del danno sul territorio interessato dal sisma, su un totale di 2200 beni segnalati: più di 600 sono nella provincia di Ferrara, nel modenese 550, nel bolognese più di 400 e nel reggiano 300. La valutazione dei danni delle 164 chiese ferraresi segnalate (di cui 141 valutate e 23 in corso di valutazione) è la somma della stima delle opere di ripristino strutturale che ammonta a 53 milioni di euro, della stima di opere di finitura impiantistiche e di miglioramento che è di 34 milioni, e della stima delle opere di primo intervento che è stata più d 1 milione, per un totale complessivo di 88 milioni di euro. I primi interventi sono stati ordinati senza copertura finanziaria, assicurata in ottobre. Dal Ministero sono arrivati complessivamente 7.820.000 euro, tra legge 122/2012 (4 milioni di euro) e fondi propri del MiBAC erogati per il sisma, e fondi già assegnati in precedenza, per opere di somma urgenza, sicurezza, restauro, raccolta macerie, progettazioni e studi su beni del patrimonio culturale colpiti dal sisma. Per far fronte al complesso delle attività di questi mesi sono stati già impegnati 2.500.000 euro circa per opere d'urgenza e per ripristino di agibilità e miglioramento sismico di Musei Statali e Archivi Statali e Archivi di Stato di Ferrara e Modena. La relazione della Di Francesco si è conclusa con l'aggiornamento sui progetti di ricostruzione già pervenuti che sono 366, di cui 259 già autorizzati, 48 in lavorazione, 56 in attesa di integrazioni, e solamente 3 non autorizzati. "La parola d'ordine è: ricostruire", così chiosa il direttore regionale e prosegue "dobbiamo solo conservare? A volte non basta. Non sempre restauro significa solo conservazione. In casi di perdite di intere parti significative o totali si devono mettere in gioco, soprattutto a seguito di un evento traumatico ed improvviso, scelte che possono divaricarsi in esiti progettuali diversi o addirittura opposti (ricostruzione all'identico? In forme semplificate? Forme contemporanee? Rudere?) le scelte non sono solo tecniche. Tutto è ammissibile". Il dibattito è aperto.
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La Nuova Ferrara, Il teatro PalaBorgatti di Cento, 5 novembre 2011, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Il PalaBorgatti Il teatro terremotato a gasolio Testo di Andrea Samaritani
Sul palco si agitano le spade e i mantelli. Cyrano alza la voce, ma a volte le sue parole si perdono. Rossana entra in scena indossando un bel vestito azzurro. Anche le sue frasi d'amore non arrivano sempre al cuore dello spettatore. Recitano bene, sono ben impostati, ma non sempre trovano quel registro di voce, che ci vuole a teatro. Infatti. Perché non siamo a teatro. Tra una battuta e l'altra ripartono con invadenza i due bruciatori a gasolio con un rumore forte, continuo, che intreccia e scolora le battute di Cyrano. Quasi tutti gli spettatori lo sopportano come un rumore di fondo. Ad un orecchio artistico può sembrare una colonna sonora, scritta da un compositore elettronico del terzo millennio. Ma né Brian Eno, Michel Nyman o tantomeno i nostrani Area hanno composto questo che rimane un fastidioso suono, legato alle folate di odore forte di gasolio consumato che arriva in platea. E' un teatro a gasolio terremotato. Perché non bisogna dimenticarsi che questa tenda da circo, affascinante, con una cupola azzurra e blu con le stelle disegnate, e un grande lampadario finto barocco al centro, deve essere riscaldata. Tanto riscaldata. Il ricordo del Teatro Borgatti non c'è. Non ci può essere. Questo è il circo, mancano solo i pagliacci e i venditori di brustoline e liquerizia. L'ingresso spoglio, bianco come lo stand di una fiera, qualche foto nostalgica del teatro, nessuna immagine delle crepe del terremoto, un ricordo da cancellare, la speranza che si rimarginino presto. Su un tavolino prima di entrare in sala ci sono i cuscini rosa mordibi per rendere meno dura la seduta, fanno tenerezza, quasi nessuno li compra, però sono lì a dimostrare le buone intenzioni e le attenzioni del consiglio di amministrazione del teatro. Il circo nel piazzale della ex Simbianca c'è sempre stato. A dire il vero c'era anche sullo Spallone, ma quello sulla ghiaia al piazzale di via Marescalca è quello che i centesi si ricordano meglio, in tempi recenti, con gli animali che per giorni stazionano attorno. Oggi, nel piazzale intitolato ai sette fratelli Govoni, c'è un tendone rosso con le decorazioni gialle, ben piantato nell'asfalto. Ruba il posto al parcheggio, ma siamo ormai abituati da mesi al rimescolo degli spazi urbanistici e viari di Cento. In altri tempi occupare un parcheggio sarebbe stato più problematico, oggi si sopporta, come le zone rosse del centro storico ancora presenti. Dentro il tendone non c'è stacco tra la platea e il backstage, volendo si può andare a sbirciare dietro le quinte, per avere l'illusione di scoprire qualcosa, di sentirsi per qualche secondo un addetto alle maestranze, un aiuto regista, per avere qualcosa di inedito da raccontare agli amici, magari ingigantendo le descrizioni. Lo spettacolo della prima serata, della prima stagione teatrale post-terremoto, raccoglie spontanei applausi a scena aperta, sinceri? Forse si, in ogni caso di incoraggiamento, di sostegno per il primo attore, quel bell' Alessandro Preziosi, Direttore Artistico del TSA - Teatro Stabile d'Abruzzo, che è arrivato nel cratere del terremoto a raccontare una storia di Cyrano De Bergerac, scritta da Edmond Rostand. Manca il pubblico rappresentativo di Cento, città borghese e produttiva, abituata a frequentare i muri del Borgatti con orgoglio e un po' di spocchia (come del resto si confà nei più importanti teatri del mondo), forse si presenteranno alle prossime rappresentazioni, dipende da che tipo di passa parola si diffonderà. Tutto questo va ricordato, per diritto di cronaca, perché sarà interessante tra ventanni rileggere queste righe, della serata inaugurale di una stagione teatrale che inizia timida, goffa, che risente ancora delle ferite profonde del terremoto che ha sconvolto tutti, che non esce dalle nostre teste, che ci fa sentire sempre degli sfollati. Sembra "sfollato" il pubblico avvolto nelle sciarpe, negli scialli di lana, con i berretti di lana ben calati sulla testa, non è diverso dalle immagini che abbiamo visto la notte del 20 maggio. Forse per questo al pubblico che si siede nelle rigide sedie di un tendone da circo gli si poteva proporre più spettacoli derivati dalla tradizione circense: giocati sui corpi, sui suoni, sulla musica, sullo stupore e l'emozione più che sulle parole, alla Fura dels Baus o al genere messo in scena con successo dai Momix, per intenderci. Senza dimenticare le bellissime ed epiche rappresentazioni di off teatro del Teatro Nucleo di Ferrara, di Paolo Nani e le tante altre compagnie che sanno stare in scena e coinvolgono il pubblico senza parole, così da dimenticare le caldaie a gasolio. Da qui parte la stagione teatrale del Borgatti. E' questo che con amore possiamo (dobbiamo?) raccontare ai futuri spettatori. Al teatro tenda di Cento non c'è, non ci può essere, la passerella, il foyer, le scale con la moquette, le poltrone comode, la riservatezza dei palchi, l'annesso museo, le conversazioni e i commenti caldi "a caldo" dello spettacolo. In via Marescalca c'è un teatro in un circo, nomade, militante, terremotato, che non riesce ad evitare il disagio del clima e coprire i rumori di fondo delle caldaie a gasolio. Sta in noi cogliere in tutto questo il fascino antico. Siamo capaci di cogliere questa opportunità storica, di proiettarci indietro di qualche secolo, quando il teatro era in strada, nelle piazze? Di accogliere questa soluzione "militante" vivendo il tendone come luogo dell'affabulazione teatrale, del sogno, povero ma meraviglioso?
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La Nuova Ferrara, Tela del Guercino salvata al Rosario di Cento, 25 maggio 2012 testo e fotografie di Andrea Samaritani |
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L'Assunta: in terra Testo e fotografie di Andrea Samaritani
Il terremoto sta cambiando l'identità culturale e storica delle terre centesi. Un pezzo alla volta sta venendo giù quello che i nostri padri avevano pazientemente costruito nei secoli. Tra le azioni di prevenzione intraprese in questi giorni è stato deciso di mettere in sicurezza una importante testimonianza artistico-religiosa della nostra storia. Da ieri è scesa in terra l' "Assunta", in cielo, opera pregievolissima del Guercino, dipinta nel 1622, appositamente pensata per essere collocata nel soffitto, nella navata centrale, della chiesa del Santissimo Rosario di Cento. La tela raffigurante la Madonna attorniata dagli angeli è scesa lentamente, calata dall'alto da quattro esperti vigili del fuoco della compagnia di Ferrara, coordinati da Emanuela Fiori, ispettrice della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici di Bologna, e da Fausto Gozzi, direttore della Pinacoteca Civica del Comune di Cento. Fuori dalla chiesa tanti curiosi e un gruppo nutrito di membri dell'Arciconfraternita del Rosario, che affonda le sue radici nel sec. XVI, e di cui fu Priore lo stesso Guercino per molti anni. Il Guercino era molto legato alla Chiesa del Rosario, tanto che volle per la sua famiglia la "Cappella del Guercino", dove è collocata ancora oggi l'imponente e affascinante tela della Crocifissione. La tela dell'Assunta è ancora in perfetto stato di conservazione, nonostante che la chiesa ha riportato evidenti danni a causa del terremoto, visibili nelle crepe e nei tanti calcinacci caduti a terra. L'opera è stata immediatamente trasportata nella vicina Pinacoteca Civica, dove nei giorni scorsi erano state collocate altre due opere prelevate dalle macerie della chiesa di Buonacompra. In Pinacoteca si stanno quindi accumulando quadri antichi che si trovano adesso vicini, tolti dalle precarie condizioni delle chiese centesi, dando vita così a una sorta di mostra "casuale", non voluta nè programmata, che potrebbe essere interessante rendere pubblica, tra qualche mese quando il triste evento del terremoto sarà solo un ricordo.
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La Nuova Ferrara, la scultura di Adelfo Galli, 8 aprile testo e fotografie di Andrea Samaritani |
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Un'opera d'arte per non dimenticare il padre del Teatrino Renazzo: la sala parrocchiale intitolata a Gallerani Scoperto il bassorilievo in terracotta dello scultore Adelfo Galli Testo e fotografie di Andrea Samaritani
"Gli sposi escono dalla chiesa tra due ali di folla, come nell'abbraccio dei portici di San Pietro a Roma. La gente fa festa, più in là la banda intona una musica allegra, davanti alcuni bambini invitano l'osservatore a entrare nella scena e a guardare attentamente per scoprire che tra il pubblico c'è raffigurato, in terracotta come il resto dell'opera, Pier Paolo Gallerani, con un libro da regista in mano". Descrive così, commosso e partecipe Adelfo Galli, l'autore-scultore dell'opera svelata domenica pomeriggio a Renazzo, un imponente bassorilievo in terracotta inserito nell'ingresso della Sala Polivalente della parrocchia di San Sebastiano. Nell'occasione la sala è stata ufficialmente intitolata allo stesso Pier Paolo Gallerani, indimenticabile fondatore del Teatrino di Renazzo, del Circolo Culturale Amici del Museo, e del Corpo Bandistico Renazzese, morto prematuramente nel 2010 a soli 57 anni. "Pierpaolo era straordinariamente umano e un fulcro di risorse culturali", ha ricordato Cristina Cristofori, consigliera del Circolo. Nella sala gremita erano presenti i familiari di Gallerani, il parroco Don Ivo Cevenini, l'assessore alla Cultura del Comune di Cento Claudia Tassinari, e gli amici del Teatrino che hanno ricordato commossi il carattere creativo e propositivo che Gallerani ha regalato a tutta la comunità renazzese. Al termine della cerimonia il gruppo "M.Colletti musica d'autore" ha tenuto un concerto tributo a Fabrizio De Andrè. "Da piccolo mi dava gli spartiti di Fabrizio De Andrè. Il cantautore genovese era la grande fonte di ispirazione di Gallerani" ci racconta Maurizio Colletti, presidente del Circolo Culturale Amici del Museo, e continua "In ogni sua commedia c'erano degli stacchi musicali di De Andrè, aveva anche riadattato una sua famosa canzone -Creuza de ma- in dialetto renazzese. Ai funerali, due anni fa, avevamo suonato per lui, in piazza, le canzoni di De Andrè, e anche oggi abbiamo voluto dedicargli un intero concerto, perché siamo sicuri che anche questo è un bel modo di ricordare Pier Paolo Gallerani".
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La Nuova Ferrara, Adolfo Wildt- Aroldo Bonzagni binomio d'arte da Cento a Forlì, 28 gennaio 2012, testo e fotografie di Andrea Samaritani
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Adolfo Wildt - Aroldo Bonzagni Binomio d'arte da Cento a Forlì Testo e fotografie di Andrea Samaritani
Con l'importante mostra antologica delle scultore dell'artista svizzero Wildt, che si inaugura sabato 28 gennaio ai Musei San Domenico di Forlì (fino al 17 giugno), prosegue il felice periodo per le collezioni d'arte del Comune di Cento, che vede le opere centesi andare in tournée nei più importanti musei e collezioni d'arte nazionali. In questi giorni due grossi camion di una ditta specializzata in trasporti di opere d'arte hanno occupato la piazza del Guercino a Cento. Una occupazione che non aveva motivazioni sindacali ma artistiche: trasportare una imponente scultura in marmo bianco di mezza tonnellata, alta più di due metri, dalla Galleria d'Arte Moderna A. Bonzagni alle sontuose sale espositive dei Musei di Forlì. "Monumento funebre ad Aroldo Bonzagni", così si chiama la suggestiva scultura realizzata nel 1919 da Wildt in memoria del famoso pittore centese. Prima della partenza è stata accuratamente pulita e sistemata da due esperte restauratrici di Bologna: Marisa Caprara e Monica Ori, che hanno ricevuto l'incarico direttamente dai Musei di Forlì, con la raccomandazione di "tirarla a lucido" perché la sua collocazione sarà centrale rispetto alle oltre 200 opere in mostra. La scultura fino agli anni settanta era nella Certosa di Milano, dove è sepolto Bonzagni, poi per merito dell'insistente e caparbia volontà di Elva Bonzagni, sorella del pittore, fu portata a Cento. L'opera fu realizzata grazie ad una sottoscrizione effettuata fra gli amici artisti, di Brera e della Permanente di Milano, primo sottoscrittore Arturo Toscanini. L'opera è formata da tre grandi maschere (che raffigurano l'ironia, la satira e il dolore) e un albero in mezzo. "E' una sintesi geniale della vita e di tutte le opere di Bonzagni", ci racconta Fausto Gozzi, direttore della Pinacoteca Civica di Cento, e prosegue, "L'ironia e la satira, ad esempio, sono ben rappresentate nelle sue molteplici illustrazioni pubblicate sui quotidiani nazionali di allora, realizzate con una forte chiave ironica, senza freni. Prendeva di mira i personaggi del tempo: D'Annunzio, Turati, Vittorio Emanuele e tanti altri. Queste due componenti erano anche espressione della sua vita, perché era un dandy, un gaudente. Disegnando i manifesti pubblicitari per la famosa sartoria Raffaelli di Milano riceveva in cambio abiti gratis che sfoggiava con eleganza e con un pizzico d'ironia, appunto, nei circoli e nei salotti milanesi. La terza maschera però rappresenta il dolore. Perchè Bonzagni, nonostante fosse già famoso e appartenesse ai più rappresentativi circoli artistici milanesi, ha dovuto battagliare tutta la vita per far tornare i conti a fine mese. Da considerare anche che la componente del dolore della guerra era presente nella quotidianità di quegli anni: il pittore centese ha visto cadere in trincea quasi tutti gli amici artisti. Infine l'albero, piccolo, con soli tre ramoscelli, che rappresenta la prematura scomparsa di Bonzagni, che morì a soli 31 anni".
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La Nuova Ferrara, Guercino tele in tournée a Palazzo Barberini, 14 dicembre 2011, testo e fotografie di Andrea Samaritani |
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Guercino, Due tele in tournée a Palazzo Barberini a Roma Testo e fotografie di Andrea Samaritani
"Il Guercino fu invitato a fare da padrino al battesimo di un bambino di Renazzo. Dopo la cerimonia chiese un sacco di iuta, già usato in campagna, e ci dipinse la scena alla quale aveva appena partecipato: un bambino appena nato tra alcune figure, una madre e un santo". Questa è una delle tante storie, leggende, che si tramandano da secoli nel centese. Ce la racconta Don Ivo Cevenini, parroco della chiesa di S.Sebastiano a Renazzo, dove sono conservate le due tele del Guercino che in questi giorni, come si vede nelle foto, sono state staccate dagli altari delle navate per essere esposte a Palazzo Barberini a Roma, Il "Miracolo di S. Carlo Borromeo" del 163 e "la Madonna con S.Pancrazio e S. Monica" del 1615. "Sono qua dal 1947 e di storie sul nostro grande pittore ne ho sentite altre, come la disquisizione infinita davanti al quadro di S. Carlo Borromeo: per molti il santo guarisce la cecità della bambina grandicella, per altri il bambino appena nato. Insomma a Renazzo ci si chiede ancora, dopo quattro secoli, chi era il cieco!". Del quadro di S. Pancrazio si ricorda ancora quando Don Antonio Masotti nella metà dell'ottocento voleva metterlo in granaio per fare posto a una statua dell'Immacolata, perché in quel periodo storico si preferiva mettere le statue nelle nicchie, però ci fu una sollevazione dei popolani che costrinsero il parroco a tenere il Guercino lì dove è ancora adesso. Don Ivo non è preoccupato che i quadri non ci siano per qualche mese (la mostra finirà a marzo del 2012) e che le navate rimangano vuote. "La parrocchia è abituata ad aspettare", continua il parroco, "La 'Madonna col Bambino e i Santi', è stata via per ben sei lunghi anni, dal 1978 al 1984, perché l'avevano rubata. Ci eravamo già messi il cuore in pace, è impossibile che la ritrovino, dicevamo tra di noi. Invece ce l'hanno riportata, e abbiamo fatto una grande festa!". "Aveva 21 anni quando dipinse i misteri del Rosario" spiega Fausto Gozzi direttore della Pinacoteca Civica di Cento al parroco Don Gabriele Carati, della chiesa di Corporeno, da dove è stata staccata la tela con i quindici misteri del Rosario, e continua, "queste scene piccole sono graziosissime, è il primo dipinto del maestro che si conosce", poi si sofferma su come allora venivano trasferite le opere, "in Pinacoteca conserviamo una lettera del Guercino che scriveva così: 'il quadro è finito, però per venirlo a prendere dovete aspettare la bella stagione', allora c'erano le carrozze, le strade erano viottoli di fango, c'erano i briganti, spostare queste grandi tele era proprio un'impresa. Oggi ci sono gli imballaggi, i paranchi, i camion super accessoriati, e maestranze di facchini superspecializzati, come la ditta di Venezia che in lunedi ha effettuato questo imponente e importante trasloco dalle chiese del centese a Roma". |
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