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Specchio, memoria, fotografia
Roberta Valtorta
Il vedere la propria immagine allo specchio è un’esperienza che, anche ripetuta infinite volte, ha sempre la valenza della scoperta. Con il tempo impariamo ad avere coscienza del nostro corpo, a percepire le nostre stesse forme e a immaginarle, nei mutamenti causati dal movimento, dall’espressione, dal passare del tempo. Piano piano impariamo a “sapere come siamo fatti”, anche grazie a quel continuo rispecchiamento che è il confronto con gli altri. L’esperienza dello specchio però rimane per noi la più sconvolgente rivelazione, che ha violentemente a che fare con la nostra identità, ben oltre l’immaginazione. Ed è una esperienza che si fa in solitudine. All’invenzione della fotografia, l’effetto di un ritratto, o di un autoritratto sugli uomini dell’Ottocento deve essere stato davvero fortissimo. E’ difficile per noi capirlo davvero, ora che la fotografia è un dato scontato, ma la “verità”, la spietatezza, l’innocenza del nuovo mezzo deve aver turbato non poco.All’effetto dello specchio si aggiungeva quello della memoria. L’immagine della realtà -sua impronta, sua ripetizione fedele- poteva essere fissata, incatenata “per sempre” a una superficie sensibile grazie alla luce. E dunque il riconoscimento della nostra eventuale identità (visiva, si intende) non si misurava più soltanto nello spazio, ma anche nel tempo: quello della nostra storia personale, ma anche quella dei nostri genitori e del gruppo a cui apparteniamo. Anche la nostra fisionomia ha una storia della quale, grazie alla fotografia, possiamo essere più coscienti. In scritti ormai noti, Susan Sontag osserva che, con la fotografia, a tutte le classi è concesso sapere che faccia aveva il nonno, il padre, la madre, i nostri antenati; e Roland Barthes sottolinea con lucidità come il ritratto fotografico possa rivelare insospettati tratti ereditari, bloccando segni che nella mobilità dell’espressione non vengono avvertiti. Nonostante la fotografia non sia mai “oggettiva”, a volte essa può dunque essere più vera del vero, può avere strettamente a che fare con l’identità stessa. La fotografia è anche un sistema di riproduzione delle immagini diffuso a livello di massa, una pratica e un tipo di immagine alle quali siamo abituati tutti, in misura minore o maggiore. Si può dire, anzia, che ad una analisi storica, la dimestichezza con l’immagine creata dalla presenza della fotografia in ogni momento del vivere sociale, dal lavoro allo svago, dai riti dell’esistenza all’arte, ha posto realmente le premesse di quella tendenziale comunicazione per immagini che l’elettronica ha fatto propria. Il lavoro di animazione condotto con gruppo di handicappati dal Collettivo del Centro Diurno dell’USL 27 di Bologna, tiene conto proprio di questi due diversi aspetti della fotografia: legame con il problema dell’identità da un lato, abitudine alla fabbricazione e alla fruizione delle immagini dall’altro. Possiamo aggiungere anche che, quando si tratti di persone non dotate di una manualità coerente, fluida, la meccanicità della fotografia, in altri casi considerata un limite alla creatività, diviene qui un dono prezioso, una caratteristica positiva. Tra i blocchi delle immagini realizzate: la registrazione del lavoro dei ragazzi mentre usano la grande camera e si fotografano fra loro; il reportage delle loro diverse attività all’interno del centro; i loro ritratti, nei quali essi offrono all’obiettivo l’immagine di sé desiderata –contesto, oggetti, espressioni, pose desiderate-. Andrea Samaritani ha condotto un lavoro di grande discrezione, un reportage leggero e il più possibile vicino alla situazione. Solo di tanto in tanto si è concesso qualche riferimento al linguaggio stesso della fotografia, quasi che l’impegno, nel favorire la ricerca di una identità, fisica e mentale, della persona, fosse anche quello di trovare una identità culturale alla fotografia. Abbiamo dunque la rappresentazione di volti e corpi di persone cosiddette “diverse”. E’ chiaro che la fotografia, immagine fissa e, si diceva, in qualche modo “innocente”, può essere, in questi casi, davvero spietata. Ma il lavoro di Samaritani non punta su dolorosi ritratti nè è volto al tono della denuncia, che in anni passati ha caratterizzato molta della nostra produzione fotografica. E’ invece tutto basato sul racconto, costruito per frammenti ricchi di gesti, presenze, rapporti fra persone. Il Centro e le sue attività costituiscono un universo che non è la realtà, ma al suo interno le diverse esperienze vengono rivissute secondo i modi dello scambio sociale. Ognuno rimane se stesso, ragazzi handicappati e operatori. Nei ritratti finali, nei quali ognuno “si rappresenta” nel modo desiderato, i ragazzi offrono interpretazioni di se stessi molto varie –di un certo interesse ai fini della comprensione della loro personalità-; gli operatori rivelano, invece con la posa, il loro ruolo. Nell’insieme della ricerca i ritratti appaiono mischiati fra loro. Milano, novembre 1987
pagg. 24-25
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Per favorire una riflessione intorno alle problematiche delle menomazioni psico-fisiche, il centro diurno per handicappati della Usl 27 di Bologna ha realizzato un libro sullo studio dell’immagine: della sua realizzazione e della sua percezione. La coscienza della propria figura è infatti al centro di ogni esistere umano. Ma si tratterà sempre, non solo nel caso degli handicappati che si mostrano (riconoscendosi) in questo libro di Andrea Samaritani, di una coscienza non definitiva, perché come giustamente scrive Roberta Valtorta nel suo bel testo compreso nel volume Adrien allo Specchio, “vedere la propria immagine allo specchio è un’esperienza che, anche ripetuta infinite volte, ha sempre la valenza della scoperta”. Photo, ottobre 1988
Una sollecitante meditazione sulla fotografia, questo volume progettato ed elaborato all’interno del Centro Diurno dell’Usl 27 di Bologna, che ha per protagonisti un gruppo di handicappati; gli autori dei testi (Andrea Canevaro, Eustachio Loperfido, Roberta Valtorta), si soffermano su temi raramente affrontati, in particolare Canevaro, ordinario di Pedagogia speciale all’Università di Bologna, che qui considera la fotografia soprattutto come un mezzo per cercare la propria identità, “così importante per un handicappato, così importante per tutti”. Queste coraggiose esperienze collocano al centro l’handicappato, sia come attore che come autore di una serie di immagini eseguite da una “grande camera” di legno attrezzata per la Polaroid 1000, e integrate da un reportage civilissimo, per nulla struggente o, peggio, speculativo di Andrea Samaritani. Italo Zannier. Fotologia, n° 10, 1988.
Da Bologna mi giunge un libro con fotografie di Andrea Samaritani “Adrien allo specchio”, che documenta l’attività di animazione fotografica in un centro diurno per handicappati della Usl 27 di Bologna: un reportage estremamente delicato che costringe anche a noi a riflettere nello specchio di Adrien. Lanfranco Colombo. Fotopratica, 1988
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